Il mese degli dei, di Takana Shirai
Tesse un dialogo con il Giappone presente attraverso il recupero dell’iconografia folcloristica, i cui codici fungono da cornice significante per il percorso catartico della protagonista. Su Netflix
Nell’iconografia, così come nella radice etimologica, Il mese degli dei si pone in continuità con tutte quelle narrazioni filmiche, che in virtù di un recupero (cinematografico) delle radici culturali di appartenenza, presentano il folclore come strumento di dialogo con il passato, come ponte sincronico tra modernità e tradizione. In un paese ultra-conservatore e tradizionalista come quello giapponese, grazie anche al potere comunicativo delle immagini in movimento, il cinema assume un ruolo di rilievo nell’interpretare le figurazioni del passato, riesumandole nell’immaginario collettivo della contemporaneità. Che si tratti di racconti horror – pensiamo agli adattamenti filmici dei kaidan, da Yatsuya Ghost Story (Keisuke Kinoshita, 1949) a Onibaba (Kaneto Shindo, 1964), fino ad arrivare a Over Your Dead Body (Takashi Miike, 2014) – o d’animazione – gli yokai de La città incantata o della Principessa Mononoke – il cinema nipponico si pone come spazio di raffigurazione inter-dimensionale, dove la messa in scena dell’iconografia folcloristica tesse un dialogo costante con la realtà del Giappone presente. Una formula di cui il film di Shirai fa apertamente uso, per integrare gli elementi figurativi tradizionali in un racconto propriamente contemporaneo.
Tra demoni e draghi celesti, messaggeri divini e templi shintoisti, Il mese degli dei si serve, allora, della cornice folcloristica come dimensione significante, come riferimento immaginario senza cui il percorso della protagonista non può materializzarsi. Nel mettere in moto il fantasioso viaggio della piccola Kanna – la ragazza deve attraversare a piedi l’intera isola di Honshu per portare nella città di Izumo il chiso, l’insieme dei doni necessari per il banchetto degli Dei, con la speranza di incontrare nuovamente la defunta madre – il film lega le immagini della tradizione giapponese esclusivamente al dramma esistenziale della ragazza, con il folclore che funge da metafora del tribolato percorso di risoluzione del lutto. Un acuto approccio narrativo, che non solo riflette quelle stesse esigenze di interpretazione del reale a cui si presta la trasposizione filmica delle storie mitologiche – le paure e i “mostri” del passato sono strumento di conoscenza per le paure e i mostri del presente – ma che rievoca il nucleo essenziale del folclore giapponese (il minkan denshō, letteralmente “comunicazione tra la gente”), il fulcro semantico attorno a cui ruota l’intero immaginario di una tradizione millenaria. Associando l’idea di base della mitologia nipponica – relazione conciliante tra uomini e divinità, e tra uomini e natura – al percorso di risoluzione del lutto di Kanna, Il mese degli dei fa della propensione alla metafora il suo punto di forza, in una costruzione narrativa che ingloba il tama (lo spirito) della tradizione figurativa giapponese, per dirigere il conflitto della protagonista verso la via della catarsi, consentendole di ritornare a comunicare dopo le sofferenze del lutto.
Per quanto Il mese degli dei, senza presentare soluzioni originali, rievochi i codici e gli archetipi narrativi del racconto d’avventura – un viaggio da intraprendere, le quest di intensità diverse, ostacoli insidiosi che intralciano il tragitto della protagonista, esilaranti compagni d’avventura dalla natura comico/fantastica – il fine a cui si prestano non è superficiale, né meramente autoreferenziale. Nel delineare un percorso immaginario, attraverso cui la giovane ragazza possa accettare il dolore della perdita risolvendo il conflitto, il film mostra come i reali pericoli non provengano dal mondo esterno (come nelle narrazioni d’avventura tradizionali), ma dalla vulnerabilità emotiva della ragazza stessa, in continuità con lo spirito purificatorio delle storie folcloristiche giapponesi, che conducono alla catarsi attraverso l’enfatizzazione delle sofferenze. Un’istanza comunicativa coerente, che configura il recupero dell’iconografia tradizionale – e del suo contenuto conciliatorio – come monito per il Giappone presente, dove all’afasia emotiva dei tempi correnti si può (ancora) anteporre una riscoperta catartica delle proprie radici.
Titolo originale: Kamiarizuki no Kodomo
Regia: Takana Shirai
Voci: Aju Makita, Maaya Sakamoto, Miyu Irino, Ko Shibasaki, Riko Nagase, Minako Kotobuki, Akira Kamiya, Chafurin, Wataru Takagi, Arata Iura
Durata: 99′
Distribuzione: Netflix
Origine: Giappone, 2021
Genere: animazione