Il mio vicino Adolf, di Leon Prudovsky

Una commedia a tratti esilarante, capace di ridere delle stesse ambiguità su cui sedimenta il suo spirito ironico. Gestisce bene l’intreccio di toni, malgrado mostri una certa insofferenza nel dramma

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Storicamente è difficile trovare una fine più controversa, discussa (e forse, paradossale) di quella che ha colpito Adolf Hitler: chiuso nell’oscurità di un bunker, lontano dalla gente e da quell’esposizione pubblica a cui ha affidato le coordinate della sua terribile mitologia terrena. Una morte che già di per sé sembra contraddire il carattere orgoglioso del padre del nazionalsocialismo, e che per mezzo di una paradossalità apparente, ha dato adito nel tempo ad una miriade di speculazioni sul suo destino “reale”. E se è pur vero che molti gerarchi nazisti hanno tentato la fuga in Sud America – come accaduto storicamente ad un altro celebre Adolf, cioè Eichmann – le ricostruzioni di fantasia sui continui “avvistamenti” hitleriani in terra sudamericana illuminano un’altra questione di fondo. Che l’opera seconda di Prudovsky Il mio vicino Adolf, desidera interrogare nelle sue configurazioni più assurde e ridicole.

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Tutto parte, allora, dall’ennesimo autoconvincimento illusorio. Ci troviamo nella Colombia rurale, al principio degli anni ’60. Marek Polsky (David Hayman) vive appartato nella sua dimora di campagna, e trascorre le giornate prendendosi cura del suo modesto giardino. Sembrerebbe essersi lasciato alle spalle la tragedia dell’Olocausto, fino a che un “maledetto crucco” dagli occhi di ghiaccio (Udo Kier) non si trasferisce nella casa di fianco. Ha con sé un pastore tedesco, dipinge con la mano sinistra e non sembra interessato agli alcolici. Per il signor Polsky non ci sono dubbi. “È sicuramente il Führer!”. E in linea con il Jimmy Stewart di La finestra sul cortile, inizia ad osservare ogni sua azione e movimento, in cerca di una prova che possa incastrarne il “chiaro” tentativo di dissimulazione. Ma lo sguardo panottico con cui manifesta dall’alto il suo spietato giudizio deve lasciare spazio al contatto se si vuole sondare il cuore della verità. E sarà proprio in questa dinamica di prossimità/distacco relazionale con il “nemico” che Il mio vicino Adolf trova le tracce del suo spirito comico. Su cui fa convergere, con coerenza, quel sottotesto sociale alla base dei vari fenomeni di proiezione traumatica manifestati dai “sopravvissuti” dell’Olocausto.

 

Come molti fra i suoi compagni/vittime, Polsky vede fantasmi ovunque. Ed è in questo senso che la sua ossessione per il vicino rende conto di un rapporto ancora aperto con il passato, da cui non può (o desidera) scappare. Inconsciamente vuole che il signor Herzog riveli di essere Hitler. Così da restituire un senso concreto al suo dolore. E più il film tenta di far scadere nel ridicolo la relazione che li lega, più solleva delle questioni profonde. Si può provare amicizia, affetto, se non addirittura compassione nei confronti di quello che si crede essere “il nemico” per definizione? Una domanda che Il mio vicino Adolf dissemina per tutto il racconto, e che rilegge ripetutamente alla luce delle sue espressioni più umoristiche. E finché le dinamiche relazionali tra i due protagonisti sono contrassegnate dalla carica farsesca, il film trova il suo passo. Il problema semmai sorge nella contaminazione con il dramma, che sulla scia delle convenzioni di genere, comprime (e non esalta) la materia drammatica di riferimento. Frenando le ambizioni di un testo smaccatamente (auto)ironico, che sa ridere della sue stesse ambiguità.

Titolo originale: My Neighbor Adolf
Regia: Leon Prudovsky
Interpreti: David Hayman, Udo Kier, Olivia Silhavy, Danharry Colorado, Jaime Correa
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 96′
Origine: Israele, Polonia, Colombia, 2022

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
Sending
Il voto dei lettori
2.28 (32 voti)
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