Il mistero di Donald C., di James Marsh

L’ultima fatica di Marsh non convince: ispirato alla storia di Donald Crowhurst, il film pecca di superficialità laddove avrebbe dovuto scavare nelle ragioni dell’impresa. Nessuna empatia possibile

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Sembra proprio che il regista britannico James Marsh abbia un debole per le “imprese straordinarie”: dal documentario consacrato al celebre funambolo Philippe Petit, artefice della storica traversata in equilibrio delle Twin Towers nel lontano 1974, al racconto – questa volta finzionale – della mente geniale di Stephen Hawking, il regista porta avanti quel suo motto non poco retorico che inneggia alle gesta eroiche di uomini comuni. Anche Donald C. – al secolo, Donald Crowhurst – rientra pienamente in questa operazione: Marsh decide di intrecciare qui l’ennesima storia di finzione intorno a un personaggio realmente esistito e passato alla storia per la sua eroica quanto imprudente azione, quella cioè di avventurarsi nella circumnavigazione del globo in solitaria e senza soste (la Golden Globe Race del Sunday Times del 1968).
L’intenzione alla base è senz’altro quella di instaurare un rapporto di empatia tra un uomo comune – appunto, il personaggio di Crowhurst (Colin Firth) – vittima dei propri stessi sogni di gloria e uno spettatore che in queste trasognate ambizioni dovrebbe ben riconoscersi. Eppure, tutto questo non accade: l’incipit del film procede frettolosamente verso la costruzione del trimarano – e conseguente ricerca di sponsor e finanziamenti per portarla a termine in tempo – senza che ci sia un vero spazio per imparare a conoscere le reali intenzioni del personaggio, lasciando in sordina la sua indole creativa da inventore di dispositivi elettronici per la quale era molto famoso. Crowhurst si troverà ben presto catapultato in un’impresa per la quale non si sente pronto: ma anche qui, durante il (finto) giro del mondo in barca a vela, il personaggio viene abbandonato a un ritratto patetico che non saprà rendere giustizia della sua storia incredibile: invece di scavare nella sua routine solitaria, di cogliere i momenti che avrebbero potuto rendere suggestivo e almeno un po’ verosimile questo viaggio interiore del personaggio, che giungerà a una nuova consapevolezza di sé e del mondo cosmico, Marsh sceglie di ancorare letteralmente la traversata alla casa sulla terra ferma – i ricordi di famiglia e l’attesa da parte della moglie Clare (Rachel Weisz), vera eroina della storia – , con l’effetto di troncare sul nascere quell’esperienza del mondo.
La storia di Crowhurst – già protagonista per altre vie del documentario Deep Water (2006) di Osmond e Rothwell – avrebbe potuto costruirsi anche soltanto a partire dalle sue menzogne: quelle trasmesse via radio sulla sua localizzazione e i finti progressi di navigazione; quelle raccolte sui diari di bordo e registrate per la BBC; quelle raccontate a moglie e figli per mostrare di sé un’immagine eroica – forse, proprio quella che Clare cerca di lui nei tanti filmini di famiglia – , costruita perlopiù con il contributo della stampa senza un reale fondamento. Perché, in fondo, si tratta proprio di una storia di inganni (anche) della mente: dove può condurre una brama immoderata di successo e affermazione, una hybris da vera tragedia greca? Dove l’occultamento della verità può considerarsi lecito e dove, invece, si fa trappola infida nella quale il soggetto finisce per sprofondare? Ma queste sono domande insite nella “realtà” di Crowhurst stesso, mentre il film resta superficiale, limitandosi a sfiorare appena la maggioranza dei punti più intriganti della verità di Don e famiglia. E così sarà anche per lo spettatore che, all’empatia – o a una presunta misericordia – , potrà facilmente sostituire un giudizio gratuito su una storia poco sondata nelle sue acque più profonde.

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Titolo originale: The Mercy

Regia: James Marsh

Interpreti: Colin Firth, Rachel Weisz, David Thewlis, Ken Stott, Jonathan Bailey

Distribuzione: Adler Entertainment

Durata: 101′

Origine: Gran Bretagna, 2018

 

 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=TWBRYnVooxs]

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