Il Mohicano. Intervista a Frédéric Farrucci e Alexis Manenti
In occasione della presentazione del film, uscito in sala l’8 maggio, abbiamo incontrato il regista e l’attore, che hanno espresso il loro punto di vista sulle storture della modernità e del liberismo

In occasione della presentazione a Roma de Il Mohicano, abbiamo incontrato il regista Frédéric Farrucci e l’attore Alexis Manenti. Quest’ultimo interpreta nel film un pastore che, nella Corsica contemporanea in cui il turismo di massa e le conseguenti speculazioni edilizie stanno modificando l’essenza stessa dell’isola, decide di resistere alle pressioni della criminalità organizzata, che vorrebbe che anche lui vendesse i propri territori.
Da cosa nasce l’idea e l’urgenza di realizzare un film come Il Mohicano?
Frédéric Farrucci: In realtà il film è ispirato alla vera storia di un pastore che avevo conosciuto nel 2017, Joseph Terrazzoni, su cui ho girato un documentario; è un pastore del profondo sud della costa meridionale della Corsica che lavora in questo territorio circondato da golf club, hotel di lusso, resort. In qualche modo lui si considera e viene considerato un’anomalia rispetto alla zona, perché resiste al cambiamento. Viene davvero chiamato l’ultimo dei mohicani. Ci tiene al punto di farsi scrupoli all’idea di lasciare il suo terreno in eredità ai figli, lo ritiene un regalo avvelenato proprio per tutta la speculazione e la cementificazione che ormai regna attorno alla sua proprietà. Chiaramente la Corsica in questo momento soffre di un turismo sempre crescente, che rischia di trasformare il territorio, di uniformarlo, di appiattire e livellare tutte le caratteristiche e le diversità dell’area. Questo tema mi sta molto a cuore, anche perché da tutto ciò si genera violenza, dal momento che in ballo ci sono tantissimi soldi, che attirano spesso persone violente.
Negli ultimi anni peraltro questo tema è stato al centro di diversi lungometraggi, su tutti As Bestas di Rodrigo Sorogoyen e Il male non esiste di Ryusuke Hamaguchi. Il cinema può aiutare a fare in modo che si formi una maggiore consapevolezza anche sul piano politico?
FF: Non credo che il cinema possa avere chissà che potere. Quando faccio un film non mi pongo l’obiettivo di cambiare le cose. Semplicemente sono temi che mi disturbano in quanto cittadino e i film sono il mio modo per esprimere queste preoccupazioni. Il mio scopo è piuttosto quello di porre delle domande, di aprire una conversazione. Il Mohicano ha effettivamente stimolato diverse discussioni quando l’abbiamo presentato in Corsica, al punto che l’ultimo mohicano è un’espressione entrata nel vocabolario comune, ci sono associazioni antimafia che la usano per le loro battaglie. Per me inoltre non è un film che parla di mafia, ma di lotta di classe. La mafia c’entra in quanto fenomeno collegato a questo ultra-liberismo.
Per te invece come è stato prepararsi ad un ruolo che è in qualche modo sia di sottrazione, che molto provante però in termine di performance fisica?
Alexis Manenti: Frédéric non voleva che facessi sport prima del film e che il mio corpo diventasse simile a quello di chi va in palestra tutti i giorni. Dovevo assomigliare il più possibile ad un pastore, una persona che cammina tanto, è sempre in movimento, ma sicuramente non è allenato da un punto di vista atletico. In più è stato molto utile nella preparazione conoscere proprio Joseph Terrazzoni: l’ho seguito per settimane e l’ho osservato a lungo; abbiamo parlato e guardavo le sue espressioni, i suoi gesti, il modo in cui entrava in relazione con le capre.
La tua filmografia è ricca di titoli come Athena, I miserabili [n.d.r. cosceneggiato dallo stesso Manenti] e Gli indesiderabili. In quei film è centrale il ruolo dello Stato e delle istituzioni come la polizia. Ne Il Mohicano invece queste sono totalmente assenti.
AM: Sì, è vero. Abbiamo parlato con dei rappresentanti dell’Assemblea della Corsica, l’amministrazione territoriale, ed in qualche modo ci è stata rimarcata proprio quest’assenza delle istituzioni sul posto, come se si limitassero a restare nei loro uffici dietro ai loro documenti. Quelle che ci sono hanno poco a che fare con la realtà ed i problemi dei corsi.
Il film esprime un punto di vista molto critico nei confronti della modernità, però immagina un utilizzo positivo dei social network, che di solito sono anzi demonizzati. Pensate possano svolgere un ruolo simile quindi nella società che cambia?
FF: Bisogna avere una visione complessa delle cose e quindi io ho una visione complessa della modernità. Mi interessava molto avere un personaggio come la nipote del protagonista, che ha una forte consapevolezza delle sue origini, ma è allo stesso tempo ancorata alla modernità. Quando deve iniziare la sua lotta si chiede quale sia il miglior modo per aggregare le persone attorno a lei e quindi è naturale che la risposta stia proprio nei social. Sono solo uno strumento, sta poi in chi lo usa trasformarlo in qualcosa di positivo piuttosto che di negativo.
Tra gli attori coinvolti ci sono anche non professionisti. Come avete lavorato per quanto riguarda i casting?
FF: Molti di loro li ho incontrati girando i miei documentari. Per esempio il veterinario è il reale veterinario di una vecchia scuola su cui avevo fatto un film, quindi quando ho scritto il personaggio ho pensato a lui. Conoscendoli c’era già un rapporto di fiducia, quindi non si preoccupavano di apparire davanti alla camera. L’unica condizione che mi hanno posto è stata quella di recitare in corso. In questi casi ovviamente sono gli attori professionisti a doversi adattare agli altri e ci sono interpreti come Alexis che sono molto bravi nel farlo. Poi noi abbiamo fatto di tutto per non falsare la quotidianità dei luoghi in cui giravamo, quindi abbiamo avuto un approccio anche in questo caso da documentaristi. Ad esempio abbiamo voluto fare pochi take, perché i professionisti migliorano ciak dopo ciak; chi non è abituato invece si stanca e noi dovevamo prima di tutto adattarci a loro.