"Il principe del deserto", di Jean-Jaques Annaud

Annaud antepone il suo occhio alle culture altre, le colonizza col suo sguardo, le appiattisce con le sue inquadrature restituendo un cinema dal fiato cortissimo. Lo strombazzato paragone con David Lean crolla al primo campo lungo: Lawrence D’Arabia era una straordinaria lezione di purezza classica sulle luci/ombre di uno sguardo occidentale immerso nell’alterità del deserto; qui, invece, il deserto è una sterile cornice che produce fascino “malgrado” i personaggi che lo abitano

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Il Principe del deserto

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Esotismo, favola, trasformazione, culture lontane nello spazio e nel tempo. Non si può certo obiettare a Jean-Jaques Annaud di non avere una sua precisa impronta autoriale: da Bianco e nero a colori a Il Nome della Rosa,  da Sette anni in Tibet a Il nemico alle porte, Annaud ha letteralmente girato il mondo con il suo “classicissimo” sguardo, riportandocelo poi in Occidente infiocchettato con gli stilemi del cine-romanzo europeo. E Il principe del deserto si inserisce pienamente in questa tendenza, assumendo un valore paradigmatico evidente sin dalle prime inquadrature: la sabbia e il deserto che ospitano una vecchia guerra; le star europee Antonio Banderas e Mark Strong a interpretare due sultani arabi; l’amore nato tra due ragazzini che da grandi riuniranno le fazioni in lotta. Tratto dal romanzo di Hans Ruesh (Paese dalle ombre corte) il film è una sorta di “Nascita di una Nazione araba”, che dalle guerre fratricide per accaparrarsi aridi lembi di sabbia si trova improvvisamente invasa da tonnellate di oro nero sotto i piedi (il petrolio, benzina della società occidentale…) rivelato da un capitalista texano piombato dal cielo: da un aereo, il simbolo della modernità. Saltano così i vecchi patti d’onore, si scontrano tradizione e nuovi interessi e persino le interpretazioni dei testi sacri vengono filtrate dal nuovo Ordine stabilito dai pozzi di petrolio. In questo fermento cresce Audan, il futuro Principe,  figlio di uno dei due sultani (Amar, il difensore della tradizione) ma cresciuto dall’altro (Nesib, il progressista affascinato dal capitale) in seguito ad un vecchio accordo di non belligeranza. Il giovane Audan oppone subito il peso dei libri e della cultura alla logica della spada: il suo è uno sguardo di sintesi tra opposti, individualista e illuminato nel contempo, molto occidentale negli assunti. Ed è questa tendenza che un po’ infastidisce nei film del regista francese: Annaud antepone il suo occhio alle culture altre, le colonizza col suo sguardo, le appiattisce con le sue inquadrature restituendo un cinema dal fiato cortissimo.

  

Il Principe del desertoIl paragone con David Lean, pertanto, crolla al primo campo lungo: Lawrence D’Arabia era una straordinaria lezione di purezza classica sulle luci/ombre di uno sguardo occidentale immerso nell’alterità del deserto; qui, invece, il deserto è una sterile cornice che produce fascino “malgrado” i personaggi che lo abitano. E se gli interrogativi che solleva il film sono di strettissima attualità – la questione mediorientale e le responsabilità occidentali sono il fulcro di ogni ragionamento politico/culturale odierno – questa esibita elementarità (sia narrativa che di linguaggio filmico) castra a priori ogni riflessione. Audan è il principe pacificatore che inizia una trasformazione (privata e pubblica) senza toccare mai la vera sofferenza: il corpo angelicato di Tahar Rahim, dopo il bellissimo Il Profeta di Audiard, è quindi di nuovo al servizio di un personaggio che muta e porta con se un cambiamento culturale nei suoi “sudditi”. Ma mentre ne Il Profeta la trasformazione del personaggio era antropologica, sofferta, piena di ombre e cinematograficamente scioccante; qui Audan sembra sempre bypassare ogni dubbio con il bravo Rahim imprigionato in un freddo burattino mosso sulla sabbia. Ora, detto doverosamente dell’ottima produzione europea (più di cinquanta milioni di dollari) che sa egregiamente tenere testa alle scenografie sfarzose hollywoodiane, Il principe del deserto appare ancora di più come un’occasione sprecata. Perché nel precario equilibrio tra il romanzo di formazione e la favola esotica chi ne ha fatto le spese , purtroppo, è stato il cinema…

   

  

Titolo originale: Black Gold

Regia: Jean-Jaques Annaud
Interpreti: Tahar Rahim, Mark Strong, Antonio Banderas, Freida Pinto, Akin Gazi, Riz Ahmed, Liya Kebede, Corey Johnson, Jamal Awar

Distribuzione: Eagle Pictures

Durata: 129' 
Origine: Francia/Italia/Qatar, 2011

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