“Il responsabile delle risorse umane”, di Eran Riklis

il responsabile delle risorse umaneIn questo percorso di espiazione che passa per il dolore e il silenzio, Riklis fa propria una costante della narrativa di Yehoshua, in cui la responsabilità è identificata con la capacità di portare il peso di un imperativo morale. Di tappa in tappa, quasi di stazione in stazione, il protagonista oppone un impulso solidaristico allo spirito individualista che avvelena il vivere della sua gente

 

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Il responsabile delle risorse umane

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Vittima di un attentato kamikaze nel cuore di Gerusalemme, Julia Regajev è l’unica ad avere un nome nel romanzo di Abraham Yehoshua come nel film che ne ha tratto Eran Riklis: perché il suo corpo resta all’obitorio senza che nessuno lo reclami, perché nessuno nell’azienda dove lavorava si è accorto della sua scomparsa. Perché malgrado le uniche cose che restino di lei siano una fotografia sbiadita e le chiavi di un modesto appartamento, sembra impossibile liberarsi della sua presenza. Certo non ci riesce il responsabile delle risorse umane, incapace di ricordarla da viva come di sollevare il lenzuolo sul suo volto da morta, infastidito dalle ipocrite accuse di “mancanza di umanità” che un giornaletto locale ha rivolto all’azienda e costretto a scortare le spoglie della donna fino al suo paese natale per assicurarle una dignitosa sepoltura. In procinto di divorziare, con una figlia che a stento gli rivolge la parola e un lavoro in cui ha smesso di riconoscersi da tempo, l’uomo è un alienato insofferente e distratto, cui Mark Ivanir dona tracce di sensibilità sopita, d’impulsività rimossa, mentre lentamente nel suo animo la tentazione di autoassolversi cede il posto a un inconsapevole bisogno di redenzione. Il formarsi della classica, improbabile comitiva che a bordo del pulmino Volkswagen si appresta ad attraversare il freddo deserto di un imprecisato paese dell’ex Unione Sovietica fa temere per un momento che il film possa virare verso le abusate traiettorie del road movie tragicomico, ma Riklis riesce ad alternare senza forzature diversi registri, e a rendere il paesaggio un non luogo privo di punti di riferimento e certezze (“non siamo né in oriente né in occidente”) e per questo foriero di intossicazioni catartiche e di vitali irragionevolezze. Se per la protagonista de Il giardino di limoni la lotta per affermare la propria identità e memoria è rivolta contro la follia della realtà che la circonda, quella del responsabile delle risorse umane è contro una parte di sé arenata lungo quell’infido confine in cui la barbarie rischia di diventare normale banalità quotidiana. In questo percorso di espiazione che passa per il dolore e il silenzio, Riklis fa propria una costante della narrativa di Yehoshua, in cui la responsabilità è identificata con la capacità di portare il peso di un imperativo morale. Di tappa in tappa, quasi di stazione in stazione, il protagonista oppone un impulso solidaristico allo spirito individualista che avvelena il vivere della sua gente; all’ammonimento a fare in fretta (come intima la proprietaria dell’azienda), all’ossessione ottusa per il controllo, l’uomo finisce per preferire l’abbandono all’inesplicabile e all’ignoto, la suggestione della presenza muta di Julia, misteriosamente portatrice di pace. La sua attrazione per un mondo sconosciuto, occasione di un percorso epifanico, si riflette nel viaggio compiuto in vita della donna, fuggita dal suo paese per vivere in Terra Santa: testimonianze entrambe della precarietà e insieme del bisogno di avere radici, dell’istinto insopprimibile di conoscere l’altro, di come siano le scelte, e non le origini, a determinare il senso di appartenenza che lega gli individui al luogo in cui vivono.
 
 
 
Titolo originale: The Human Resources Manager
Regia: Eran Riklis
Distribuzione: Sacher Film
Durata: 103’
Origine: Israele/Germania/Francia, 2010
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