"Il segreto della mia preveggenza futuristica? Il cinema classico". Incontro con Andrew Niccol

Attenzione a non farsi fuorviare dai temi che tratta di film in film. Quello di Niccol è uno dei cinema più autenticamente classici che ci siano oggi in circolazione. Anche quando parla di virtuale, anche quando il suo sguardo disegna traiettorie percettive addirittura pre-veggenti. Simone è tutto questo, ma anche qualcosa in più

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Attenzione a non farsi fuorviare dai temi che tratta di film in film. Quello di Niccol è uno dei cinema più autenticamente classici che ci siano oggi in circolazione. Anche quando parla di virtuale, anche quando il suo sguardo disegna traiettorie percettive addirittura pre-veggenti. Simone è tutto questo, ma anche qualcosa in più: un tripudio di intelligenza filmica anticipatoria, o forse soltanto un'ultima, sublime dichiarazione d'amore ad un cinema che non c'è più. Andrew Niccol mi viene incontro, è un uomo giovane, gentile, e soprattutto disponibile a parlare di cinema. 

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Innanzitutto complimenti per la nuova pre-veggenza sul futuro del cinema che campeggia nella yua opera….


 Grazie per i complimenti, ma mi sembra naturale che un regista con la sua opera si sforzi non tanto di anticipare i tempi, ma di sentire che il Reale che viviamo tutti i giorni si trasforma lentamente in un qualcosa di cui avremo una percezione chiara soltanto avanti negli anni. In questo senso trovo che il cinema sia una formidabile macchina rivelatrice/anticipatrice di alcuni passaggi epocali che poi saremo destinati  a vivere come l'ordinarietà di tutti i giorni. 


Già, eppure ci sembra che il set del tuo cinema sia diviso da una dualità di forze biunivoche: il futuro/destino del mezzo /reale da una parte, ma anche una tensione nascosta a riscrivere queste coordinate in un omaggio dichiarato ad un certo cinema classico



Girando qui a Roma, ho visto una macchina modernissima sfrecciare su un suolo fatto di antichi sanpietrini. L'idea da cui nasce il mio cinema è proprio questa: non c'è futuro, non c'è passato, ma una sorta di co-estensione di entrambi all'interno dello stesso apparato reale. In Gattaca il surplus di passato rispetto al futurismo che campeggia nell'opera è più o meno lo stesso di Simone, la cosa che mi interessa è parlare dell'uomo immerso in un panorama tecnologico che cambia molto più velocemente di quanto si possa immaginare. E poi sono un grande fan del cinema del passato, tanto che potrei indicarle tanti autori senza le cui opere probabilmente oggi non farei cinema.



Eppure il tuo cinema ci sembra comunque molto originale, per certi versi innovativo propri rispetto all'oggi filmico…



Naturalmente le mie preferenze non si trasformano in modelli da imitare. Non c'è un genere di film che mi piace affrontare rientrando all'interno di una rete di genere, proprio perché credo che il cinema debba esprimere quel quid di universale, valido dunque per tutti, che verrebbe inevitabilmente penalizzato se fatto rientrare all'interno di una casistica precisa.


 

In questo senso il tuo è un cinema molto scritto, a volte quasi ossessivo nel ripercorrere i luoghi di uno script assolutamente dominante rispetto al resto. Oppure si tratta di una falsa traccia messa lì in bella mostra per mandarci fuori strada?


Buona la seconda. Ciò che nelle mie opere appare molto preciso, dunque in questo senso già prefissato in un'ideale sceneggiatura, è in realtà frutto di un lavorio incessante sul set che mi fa cambiare idea anche due, tre volte nello stesso giorno. Arrivo addirittura a dirle che la sceneggiatura di partenza di Simone era molto differente rispetto a quella per così dire definitiva. Un conto è il cinema preparato a tavolino, un conto quello che fa i conti con la realtà che si prova sul set. Con questo non voglio dire di aver stravolto l'opera in sede di ripresa, ma di aver fatto degli aggiustamenti che mi sono apparsi di volta in volta necessari per la buona riuscita del film.



Siamo d'accordo con te, anche noi crediamo che la sceneggiatura vada bene, ma fino ad un certo punto…


Diciamo che alcune idee sviluppate nella scrittura iniziale sono diventate poi nell'opera delle vere e proprie costanti visive che fanno da trait d'union tra una sequenza e l'altra.



Alludi al dispositivo oculare fatto di triangolazioni impazzite di occhi che guardano/ sono guardati, o anche mancati all'ultimo…


Non c'è dubbio. Mi interessava molto lavorare sulla proliferazione di tante, possibili riprese che creassero confusione, disorientamento, difficoltà insomma nel capire immediatamente chi guarda chi. Tutto ciò è facilmente comprensibile anche guardando al tipo di ripresa che ho effettuato non sul set, ma sui due set creati. Se Al Pacino guarda Simone da un set, Simone riceve il suo sguardo su di un altro set, in un altro spazio e sicuramente in un tempo differente. Ho creato dunque dei vasi comunicanti, con la differenza che uno spazio dei due è occupato da un essere virtuale, un agglomerato di pixel che non hanno niente di umano, se non la forma estetica. Quando il personaggio interpretato da Pacino cerca di liberarsi di Simone, ho cercato di trasformare quest'apparizione virtuale in un personaggio più vero, quasi in carne ed ossa, per creare ancor più smarrimento in chi, guardando, non si rende più conto di cosa sta vedendo.

La tua teoria percettiva ci pare perfetta, molto vicina ad assumere la forma di un vero e proprio saggio. Eppure il tuo cinema è terribilmente umano e passionale. Direi quasi romantico…



Come mi è capitato di dire più volte, non mi interessa granché filmare il virtuale, preferisco restare tra gli uomini, attori, registi, comparse in carne ed ossa. Purtroppo mi rendo conto che aumentano di giorno in giorno le opere realizzate con attori virtuali (basti pensare al Gladiatore di Scott, col redidivo Reed morto durante le riprese), scelta quest'ultima che per quanto mi riguarda porterà ben presto il cinema in una sorta di vicolo cieco da cui sarà impossibile uscire. E allora mi diverto a tratteggiare qualcosa che poi magari accadrà, ma lo faccio sempre come una sporta di esorcismo filmico che possa allontanare il pericolo magari ancora per qualche tempo. Parte di questa mia visione delle cose purtroppo, rende la gestazione dei miei film alquanto ardua e difficoltosa. Purtroppo sono un regista che si sforza di fare film non convenzionali e costosi, qualità che Hollywood non sopporta di buon grado. Quando ho finito di concretizzare per iscritto il progetto di Simone, ho cercato in tutti i modi di farmi sostenere il progetto subito, ma ho dovuto aspettare un bel po' di tempo perché ciò accadesse. Riguardo il romanticismo delle mie storie, posso dire di essere molto attratto dalla componente passionale presente in ognuno di noi, ci tengo dunque molto che tutto ciò emerga nelle opere che dirigo. 


Ma forse anche quelle di cui non firma la regia come The Truman Show, che peraltro si basa su un espediente narrativo perfettamente opposto a quello di Simone. Se Jim Carrey alla fine riesce a liberarsi dal giogo massmediatico, Pacino torna circolarmente a far ri-vivere il fantasma di successo di Simone…



E' chiaro che non mi piaccia ripetermi, dunque in questa mia ultima opera ho voluto sistemare la faccenda in un modo diverso rispetto al film di Weir. Non c'è più pessimismo o rassegnazione in questo, ma semplicemente la volontà di cambiare segno ad un tragitto fuori/dentro l'immagine su cui mi piace molto soffermarmi. In Gattaca ad esempio la svolta finale nello spazio sembra inscritta in un destino roseo e positivo, qui forse le cose erano destinate ad andare in modo diverso.



In Gattaca appariva la grossa catena di montaggio di corpi destinati alla perfezione, in Simone la fabbrica ha chiuso, è rimasto soltanto il fantasma della macchina che arriva quasi a citare se stessa (soprattutto nelle sequenze in cui si produce sogno, rappresentazione, immaginazione…



Il cartellone gigantesco di Simone che campeggia in buone parte delle sequenze è un segno visivo a cui tengo molto, l'immagine dà, l'immagine toglie, ma soprattutto l'immagine mente. Il trionfo della menzogna virtuale domina l'intero apparato prospettico di Simone, giungendo addirittura a dominare ogni  minimo movimento scenico. Gli attori che recitano con Simone, occupano un posto vuoto della messinscena, immaginano di parlare con lei, di muoversi accanto a lei, ma si tratta soltanto di una fantasia che prende quasi il sopravvento sulla realtà. La macchina riproduttiva di Gattaca di cui parla lei era perlomeno ancora visibile, ancora ancorata ad un qualche sostegno umano. In Simone tutto questo sparisce perché l'umano pare aver perso, sostituito da un suo simulacro.

Ci piace molto quest'idea di set vuoto, lambito da movimenti di macchina che paiono sostituire la performance attoriale e soprattutto ci piace l'idea di far muovere l'impagabile Pacino senza palla, buttandolo nel bel mezzo di un'assenza da coprire in qualche modo…



Pacino è straordinario, non è una novità, e lo è stato ancora di più nel configurare due diverse possibilità espressive: la sua e quella di un corpo che non c'è. E' incredibile vederlo mentre parla al vuoto, agitandosi come avesse davanti una persona in carne ed ossa. Riguardo il set, il progetto di Simone è nato proprio come tentativo di abolire la portata plurale di un set che sarebbe dovuto essere ridotto all'osso. La vera essenza del film sta proprio nelle sequenze in cui Pacino, immerso nella solitudine silenziosa dell'enorme sala in cui non c'è rimasta traccia di macchinari di scena, fa parlare la sua creatura, donandole quell'alito di vita che ce la fanno sembrare così umana.



Il corpo d'altronde è un presupposto filmico che non andrebbe mai dato per scontato. E tu nel filmare l'ombra di un'assenza hai pochi rivali…



Mi piace lavorare sulle possibilità del cinema che per me significa lavorare sulle possibilità del corpo. Ma quello vero però, non quello fasullo…

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