Il seme del fico sacro. Incontro con Mohammad Rasoulof

Cosa significa oggi fare cinema in Iran? Il racconto del reale, in presenza di un regime sempre più violento e intollerante, è ancora possibile? Il regista iraniano ha raccontato il suo ultimo film

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In occasione della proiezione stampa romana de Il seme del fico sacro, l’ultimo lungometraggio da regista di Mohammad Rasoulof, già autore di Lerd e Il male non esiste, il regista ha raccontato alcuni dettagli sulla lavorazione del film, oltreché riflessioni sulla situazione politica globale e il ruolo delle donne nella lotta per la libertà.

Soffermandosi sulla condizione dell’esilio e il ruolo del cinema, racconta ai presenti: “Ho passato anni in Iran durante i quali mi era stato posto il divieto di lasciare il paese, anche perché ero sprovvisto di passaporto. E in quel periodo mi era sembrato impossibile anche scendere in strada e filmare e lì quindi mi sono chiesto: ‘Come vado avanti? Come proseguo il mio lavoro?’. Così ho iniziato a pensare alla realizzazione di un film d’animazione, basato esclusivamente su degli archivi. Oggi grazie ai social cambia tutto. Viviamo in un mondo interconnesso, un mondo che mi dà speranza rispetto alla possibilità di raccontare storie altrimenti proibite, cancellate. Storie capaci di appartenere tanto al popolo iraniano, quanto al pubblico globale.”

Eppure l’esilio non riguarda esclusivamente Rasoulof, bensì tutti coloro che hanno preso parte alla lavorazione de Il seme del fico sacro e, interrogato sul futuro del suo cinema, il regista svela: “Siccome da quando ho lasciato l’Iran sto viaggiando non stop con il film e probabilmente lo farò ancora per vari mesi, non sono ancora riuscito a trovare il tempo di fermarmi e capire, però ho già tre sceneggiature in mano. Non vedo l’ora di scegliere quale sarà la prima che realizzerò. L’unica attrice che è rimasta in Iran è quella che nel film interpreta la madre delle ragazze, perché tutti gli altri sono riusciti a lasciare in tempo il paese. Alcuni clandestinamente, altri no. Anche se moltissimi membri tecnici della crew, che non conosco a fondo, hanno scelto di restare lì. Tra l’altro, parliamo di un processo giudiziario in corso, che riguarda tutti coloro che hanno preso parte al film e come me verranno giudicati in contumacia. L’accusa è propaganda contro il regime, attentati contro la sicurezza pubblica e la diffusione della prostituzione e corruzione sulla terra”.

Inevitabilmente, in tema di regime, esilio e carcere, perfino in assenza di reato, le domande si spostano sempre più verso il caso recente della giornalista Cecilia Sala, rispetto al quale Rasoulof ha da dire qualche parola, trattandosi di un argomento estremamente sentito e personale: “Mi complimento con Cecilia Sala per aver raggiunto l’Iran, accettando il rischio e le conseguenze di una decisione come questa. Una giornalista deve necessariamente vedere da vicino, per poter comprendere. Riguardo alla sua detenzione nel carcere di Evin, tutto quello che posso dire è che io nella stessa prigione ho passato due periodi e posso immaginare che esperienza difficile sia stata per lei e ancor più in generale per una persona europea. Io in Iran ci sono nato e cresciuto, sono preparato in qualche modo a combattere tutte queste difficoltà e scontri, molti dei quali taciuti, negati dallo Stato. Mentre una persona europea, fortunatamente è meno preparata. Nel mio film c’è anche questo, la mia esperienza carceraria, che si riflette poi sulla famiglia e di tutto ciò che resta fuori e che fa a pezzi sempre più lentamente, ciò che c’è dentro.

Dal cinema, all’immediatezza della realtà. Rasoulof riflette sul ruolo del giornalismo moderno in Iran e dice: “Nel mio paese, non abbiamo più la fortuna di avere giornalisti liberi. I cittadini lo diventano. Armati di telefonino, vanno alle manifestazioni e fotografano, riprendono, pubblicando ogni cosa sui social, almeno i più coraggiosi. Quella è forse l’unica informazione libera ad oggi in Iran, per questo nel mio film torna la medesima riflessione. È estremamente reale lì ed è sotto gli occhi di tutti. Posso dirvi che moltissimi video li ho recuperati solo una volta uscito dal carcere e ne ho visionati davvero molti, così da selezionare i più forti e dialoganti con il mio materiale narrativo. Tenendo sempre a mente che avrei girato un film clandestinamente. Come avrei ricreato ad esempio le scene di protesta? Non lo sapevo ancora, era soltanto una delle moltissime riflessioni, eppure se volevo davvero realizzarlo, dovevo uscirne. In più volevo ragionare sulla forza dei social, nel rendere più coesi e invincibili gli attivisti e le attiviste, dando loro ulteriore coraggio, così da vederli ancora e sempre più tra le strade e le piazze delle città, a gridare e manifestare in nome della libertà. E poi mi sono chiesto: ma anche qualora riuscissi a ricreare queste manifestazioni, avrei ancora questa forza cruda della verità? Allora mi apparso importante dalla finzione, raggiungere il realismo tipico del documentaristico.

Concludendo poi sul destino dei regimi e l’utilità della violenza, Rasoulof chiosa: “La liberazione non passa mai dalla violenza, a mio avviso. La ricerca di libertà della donna per esempio, che è fortissima e sempre più evidente, rigetta su tutta la linea l’uso della violenza, per questo è capace di imporre una svolta, un cambiamento radicale. Sul futuro del regime iraniano invece e più in generale di tutti i regimi, ciò che penso è espresso dal finale del mio film. È vero, estremamente metaforico e in qualche modo perfino religioso, eppure quello che posso dirvi, in termini di realismo crudo e quindi con grande sincerità, è che il regime annegherà nella propria tomba, si seppellirà da solo. Chi semina vento, raccoglie tempesta.


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