Il tempo che ci vuole, di Francesca Comencini

La storia del rapporto tra l’autrice e il padre Luigi è un film sincero e bellissimo, che ci consegna una cineasta in stato di grazia. VENEZIA81. Fuori Concorso.

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Prima la vita, poi il cinema” dice il padre-regista al suo assistente sul set di Le avventure di Pinocchio, rimproverandolo per essersi rivolto maleducatamente agli abitanti del villaggio in cui stanno girando. È un momento cruciale, una sorta di dichiarazione programmatica da cui Francesca Comencini parte per mettere in gioco se stessa e il confine tra memoria e fantasia, come non aveva mai fatto finora. Ed è un principio che andrebbe stampato sul set di ogni film italiano contemporaneo, fin troppo infarcito di opere in cui non sembra credere e “vivere” nessuno fino in fondo. E allora partiamo da qui. Dalla necessità di iniziare dalla vita, che non significa necessariamente “realismo”. Ma semmai dalla verità, dall’urgenza reale di raccontare le emozioni vissute e condivise prendendosi “il tempo che ci vuole”. Quello che è servito a Francesca Comencini a quarant’anni di distanza dall’esordio di Pianoforte – anche quello un film autobiografico come questo, quasi a chiusura di un cerchio ideale  – per raccontare l’infanzia e la giovinezza vissute con il padre Luigi, il grande regista del cinema italiano, qui interpretato da un immenso Fabrizio Gifuni (il miglior attore italiano di oggi!). Un auto-biografismo che qui diventa definitivo omaggio alla figura paterna, ma anche una sorta di distanziamento esorcistico generazionale (“Non ho mai capito la passione dei giovani per l’autobiografia, da cui mi sono sempre sottratto” confessa a un certo punto il padre-regista alla figlia esordiente, che sta cercando di prendere la sua strada).

Francesca Comencini scrive e dirige compiendo scelte essenziali: due personaggi, un padre e una figlia che non si chiamano mai per nome. Dalla fine degli anni ‘60 agli anni ‘90, senza date precise – perché la memoria è legata a fatti, dettagli, immagini da ricostruire – e i riferimenti storici dettati dai notiziari televisivi (la strage di Piazza Fontana, gli attentati delle brigate Rosse, l’assassinio di Aldo Moro). E ancora la lavorazione del Pinocchio televisivo (1972) come epifania fanciullesca di un mondo cinematografico e morale da ereditare. Poi arriva la droga, raccontata in fuori campo con pudore e con una scena in bagno che è tra le più oneste e potenti che il cinema italiano ci ha regalato negli ultimi anni, in cui il fallimento della figlia eroinomane incontra le insicurezze artistiche del padre-regista (“Tentare. Fallire. Tentare di nuovo!”). Perché Il tempo che ci vuole è un racconto di formazione duplice. Quello della bambina (l’esordiente Anna Mangiocavallo) che prova a diventare donna (Romana Maggiora Vergano, bravissima) e quello del padre che deve spogliarsi dell’aura di artista per diventare “umano” e salvare la figlia. Un film sincero e bellissimo, che ci consegna una cineasta in stato di grazia, reduce dalla “palestra” seriale di Gomorra e Django e dall’imperfetto ma affascinante Amori che non sanno stare al mondo. Una cineasta che nel bene e nel male ha sempre messo il cuore davanti a ogni tentazione di intellettualismo e che qui mette in scena la sua vita trovando un equilibrio quasi miracoloso tra il racconto intimo e cronachistico e la trasfigurazione fiabesca. E poi c’è il cinema. Inteso mai come esperienza accademica, ma come portale sul mondo e conoscenza di se stessi. E quindi L’Atlantide di Pabst dialoga con Paisà (“Hai visto che fa Rossellini?“), il surrealismo dei film muti – gli spezzoni dei quali appartengono alla collezione che lo stesso Luigi Comencini ha salvato dal macero e donato alla Cineteca di Milano – si intersecano con l’auto-fiction. Con È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Il tempo che ci vuole è uno dei film italiani più importanti degli ultimi anni per come riesce a plasmare la creazione artistica con il vissuto dell’autore, per il modo con cui ci ricorda che per fare cinema bisogna sempre avere “qualcosa da raccontare”. Una piccola, umile lezione su quanto il dolore e l’amore siano snodi cruciali per un’autentica visione del mondo e del cinema. Prima la vita. Sempre. 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
3.33 (9 voti)
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