"Il tempo che resta", di François Ozon

Il cineasta francese sembra aver scelto di filmare la morte come se si trattasse di un qualsiasi soggetto e non una vicenda sentita. E ciò si avverte non solo nell'indifferenza di sguardo ma anche in momenti che, francamente, sfiorano il ridicolo. Ozon appare ormai quasi un Michael Winterbottom alla francese. E non è un complimento

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Filmare la morte è sempre un atto estremo per il cinema. O lo si fa con un procedimento documentarista, oppure ogni inquadratura, ogni piano diventa sempre una questione morale. Di pellicole francesi, per esempio, si possono ricordare il riuscito La morte in diretta di Tavernier del 1980 o l'intensissimo e struggente Son frère di Patrice Chéreau, davvero opera sul disfacimento di un corpo. Anche Il tempo che resta – presentato nella sezione "Un certain regard" lo scorso anno a Cannes –  apparentemente si inserisce in questa linea di cinema sulla morte e vede protagonista Romain (Melvil Poupaud), è un giovane fotografo che apprende dal medico che ha un tumore e non gli resta più molto tempo da vivere. Ozon filma fisicamente i segni della malattia come gli atti sessuali, mostra gli altri personaggi che ruotano attorno al protagonista (dai genitori, alla sorella con cui ha un rapporto difficile, alla nonna, alla coppia che gli chiede aiuto per concepire un figlio visto che il marito è sterile) ma Ozon disperde il dolore privato in una serie di azioni che tendono volontariamente a drammatizzare spettacolarmente il dramma personale del protagonista. Ad un certo punto Romain va a trovare la nonna (Jeanne Moreau) e le fa una foto prima di salutarla per sempre. Il personaggio di Il tempo che resta convive sempre con l'immagine, sia quella degli altri (gli scatti fotografici) sia la propria (il guardarsi allo specchio). Ozon poi gioca sul continuo contrasto passato/presente, aprendo il film con Romain bambino sulla spiaggia e chiudendolo sempre su quel luogo con il protagonista ormai adulto. La filmografia di Ozon, da Sitcom del 1998 è ormai vasta (realizza regolarmente un film all'anno) e, tranne i felici risultati raggiunti con Gocce d'acqua su pietre roventi e Sotto la sabbia, appare alquanto informe. Il tempo che resta appare quindi alla fine come un vacuo esercizio narrativo di un cineasta che può apparire anche eclettico ma del quale sembra essersi persa una linea coerente nel proprio modo di fare cinema. In Il tempo che resta il cineasta francese sembra aver scelto di filmare la morte come se si trattasse di un qualsiasi soggetto e non una vicenda sentita. E ciò si avverte non solo nell'indifferenza di sguardo ma anche in momenti che, francamente, sfiorano il ridicolo, come l'immagine di Romain disteso agonizzante sull'asciugamano della spiaggia e un bambino che arriva lì col pallone che non è altri che lui bambino. Ozon appare ormai quasi un Michael Winterbottom alla francese. E non è un complimento…

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

 


Titolo originale: Le temp qui reste


Regia: François Ozon


Interpreti: Valeria Bruni Tedeschi, Jeanne Moreau, Melvil Poupad, Daniel Duval, Marie Rivière


Distribuzione: Teodora


Durata: 78'


Origine: Francia, 2005

--------------------------------------------------------------
CORSO COLOR CORRECTION con DA VINCI, DAL 5 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Un commento

    • Assolutamente in disaccordo con quanto espresso ..non vedo prima di tutto il parallelismo con Winterbottom . SInceramente non ho visto nessun forma di spettacolarizzazione del dolore , anzi mi pare che Ozon in tal senso sia sempre stato molto riservato al riguardo , puntato proprio sulla poetica dell'EQUILIBRIo e non di certo dell'eccesso. Non lo considero di certo un capolavoro ma nemmeno così scontato e banale come si vuol far credere ..parlare poi addirittura di ridicolo, mi pare veramente eccessivo..vogliamo poi parlare dell'ultima opera di Winterbottom , che se si escludono le due scene violente sulle donne , è palesemente noiosa ( killer inside me ) ??? ai posteri l'ardua sentenza..ah ,ovviamente de gustibus..

      (nella recensione che ho letto sopra .