Il treno dei bambini, di Cristina Comencini
Dal bestseller di Viola Arnone, rispolvera una pagina di storia con indubbio rigore ma anche con eccessiva enfasi e con frammenti da Neorealismo posticcio pronto per Netflix. RoFF19. Grand Public
Rimane stretto il rapporto con la memoria privata nel cinema di Cristina Comencini. Dopo Va’ dove ti porta il cuore a La bestia nel cuore fino al precedente Tornare, il protagonista di Il treno dei bambini torna a confrontarsi con il passato, come per rispolverare dei conflitti mai risolti. Come in Tornare c’è ancora una morte e il ritorno a Napoli che segnano l’iniziale percorso per rimettere a fuoco i ricordi. In Il treno dei bambini, tratto dal bestseller di Viola Arnone, dal 1994 si passa al 1946. Amerigo Speranza, un celebre direttore d’orchestra, si trova davanti a un fantasma, anzi, a una proiezione di se stesso quando era bambino. Stacco. Napoli durante la guerra, ci sono i bombardamenti. Antonietta cerca disperatamente il figlio Amerigo che si è nascosto. È disperata, ma alla fine riesce a trovarlo. Madre e figlio vivono soli. Il padre è partito per l’America per trovare lavoro ma di lui non c’è più traccia. Entrambi vivono in uno stato di estrema povertà. Antonietta cerca per Amerigo un futuro migliore. Grazie all’operazione del Partito Comunista su intuizione dell’Unione Donne in Italia (UDI), viene data a lui e a molti altri bambini che vivono nelle sue stesse condizioni la possibilità di salire su quelli che sono stati chiamati ‘i treni della felicità’ in direzione Modena, per essere affidati a famiglie del luogo. Di Amerigo si prende cura Derna, una donna che vive da sola e che inizialmente si trova a disagio con lui. Col tempo il loro legame diventerà molto profondo.
Scritto dalla stessa regista assieme a Camille Duguay, Furio Andreotti e Giulia Calenda (questi ultimi due anche sceneggiatori di C’è ancora domani), Il treno dei bambini rispolvera una pagina di storia con indubbio rigore ma anche con eccessiva enfasi. Dal film di Paola Cortellesi c’è la connessione con squarci di Neorealismo che qui appare posticcio pronto per l’estetica Netflix nella parte ambientata a Napoli. Già nella scena iniziale, quando Amerigo sta per esibirsi in concerto dopo aver ricevuto una telefonata che gli ha annunciato un lutto, Il treno dei bambini rimarca spesso il gesto, l’espressione del viso, la parola come se avesse il timore di scollegarsi dalla storia o non riuscire a mostrare quello che provano i personaggi. Anche nella parte iniziale soprattutto si sente la ‘ricostruzione’ con dialoghi quasi declamati che prevalgono invece sui suoni d’ambiente. Poi la sottolineatura caratterizza momenti come, per esempio, il lancio dei cappotti dal treno, il regalo di Alcide (fratello di Derna) ad Amerigo, la vista della neve, la mortadella.
Come spesso avviene nel rapporto con la letteratura nei film di Cristina Comencini, il passaggio dal testo al film cerca sempre di essere indolore come per non tradirlo. Fino a qui è questione di scelta ed è rispettabilissima. Ma non si va oltre la rappresentazione. Se comunque il film riesce a mantenere l’integrità della storia, cerca spesso il colpo a effetto, come se l’emozione e il coinvolgimento fossero i risultato di un’operazione matematica tra testo scritto e recitazione. In parte può essere vero però non basta. Sicuramente Il treno dei bambini è migliore di recenti film drammatici della regista come lo stesso Tornare o Quando la notte, ma l’evocazione è sempre scoperta e il didascalismo pronto dietro l’angolo per servire all’occorrenza. Se la prova di Serena Rossi è funzionale, della prova di Stefano Accorsi pesano anche gli ingombranti silenzi. Ma chi è più a disagio è Barbara Ronchi, oggi una delle più brave attrici italiane, qui in una lotta continua con un personaggio che cerca di continuo ma non sembra appartenergli.