Il varco, di Federico Ferrone e Michele Manzolini

Apre uno squarcio netto e vivo nella Campagna in Russia, ben lontano dalla retorica del vittimismo e del ricordo.

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Antonio Di Pasquale, mio nonno, nel 1941 era un ragazzo di poco più di vent’anni. Nato in quella Sicilia d’entroterra, così lontana dal mare da sembrare irreale a chi arriva dal Continente, nonno credeva che tutto il mondo fosse racchiuso nelle vie e nelle case di Buccheri, il suo paese. Partito fante in quella guerra voluta a tutti i costi da Mussolini, si ritrovò catapultato in Russia, in un’avventura che lo costrinse a vivere l’inverno più lungo della sua vita, tra la prigionia dei sovietici e quel freddo feroce che lo perseguitò per sempre. Solo la determinazione ottusa di tornare e la generosità infinita di una famiglia ucraina che lo accolse e lo sfamò per mesi, lo tenne in vita. Da allora la “sua Russia”, da cattolico sincero e anticomunista viscerale, rimase nelle parole imparate per sopravvivere, ripetute a casa un po’ per non dimenticare, e nel ricordo commosso dell’aiuto spassionato di chi lo trattò come un figlio. Quella storia lo accompagnò per il resto della sua vita e, forse come giusto che sia, andò via con lui.

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Di quella sciagurata campagna, negli ultimi decenni, si è scritto tutto, sappiamo ogni cosa. Conosciamo le condizioni ignobili dei soldati italiani, le scarpe di cartone, il rancio putrido e l’inadeguatezza dei comandi, crollati di fronte la resistenza sovietica, mettendo a repentaglio migliaia di vite. Sappiamo bene la terribile contraddizione di essere invasori, pronti a schiacciare i civili sul nostro percorso verso Mosca, e vittime di un regime feroce, disposto a sacrificare i propri uomini solo per ingraziarsi un alleato che ci disprezzava. Il varco, il documentario di Federico Ferrone e Michele Manzolini, apre uno squarcio netto e vivo in questa storia, ben lontano dalla retorica del vittimismo e del ricordo. Il protagonista del racconto, universale nel suo essere anonimo, potrebbe essere Mario Rigoni Stern, Nuto Revelli, mio nonno o un qualsiasi dei tanti dimenticati soldati che sono stati attraversati da quell’orrore bianco.

I registi si fanno aiutare da Wu Ming 2 (già co-autore de L’uomo con la lanterna, opera affine ideologicamente) e, ispiratisi alla diaristica, creano un punto di vista sintetico, un flusso di coscienza sofferto, con la voce di Emidio Clementi che ci conduce dentro quell’assurdità. L’utilizzo di un materiale straordinario (merito del coinvolgimento dell’Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia) rarefatto e ipnotico, porta il pubblico a guardare in faccia l’ossessione di una vicenda incomprensibile. I sorrisi increduli davanti la mdp, la tranquilla felicità ostentata e le macerie che lentamente, sulla strada per Mosca, si fanno sempre più spettrali, sono tutti tasselli di un mosaico che a fatica può restituirci davvero ciò che è stato. Resta solo questo bianco infinito e osceno che ci riempie gli occhi. E sotto, nascoste nella neve, la rabbia, la paura e l’ossessione di una Storia che deve essere raccontata, ancora una volta.

 

Regia: Federico Ferrone, Michele Manzolini
Distribuione: Istituto Luce Cinecittà
Durata: 70′
Origine: Italia, 2019

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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