Il volto nascosto di Hollywood: Ed Harris

Regista e interprete dell'intenso "Pollock", da venerdì in sala, Ed Harris è uno dei più grandi attori moderni. La sua multiforme capacità mimica lo ha condotto ad interpretare i ruoli più disparati, tratteggiando degli indimenticabili ritratti di personaggi a tutto tondo, da "Alamo Bay" ad "Abyss", fino all'essere immaginario di "A beautiful Mind"

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Interprete di una gran quantità di film, spesso come attore non protagonista, Ed Harris è giunto alla celebrità senza mai diventare una vera e propria star: la sua presenza discreta ma nello stesso tempo incisiva; una recitazione sobria e misurata, aliena dalle facili scappatoie del "sopra le righe"; la capacità di rinnovarsi aggirando il rischio della maniera (dal quale invece non sono esenti né i "mostri sacri" come De Niro e Pacino né le nuove leve come Edward Norton) lo hanno reso una sorta di volto nascosto di Hollywood, quasi una traccia subliminale, in grado di imporsi nella memoria cinematografica senza divistici clamori.

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Edward Allen Harris nasce ad Engelwood, nel New Jersey, il 28 novembre 1950. Dopo aver sognato una carriera di sportivo di professione inizia ad interessarsi al teatro e, nel 1975, si diploma presso il California Institute of Arts. La sua prima apparizione televisiva risale al 1977 con una parte secondaria nel film The Amazing Howard Hughes di William A. Graham, mentre l'anno successivo esordisce sul grande schermo interpretando un piccolo ruolo in Coma profondo di Michael Crichton. Da allora lavora attivamente sia per il cinema che per la televisione, senza mai abbandonare il teatro (nel 1986 debutta a Broadway). Nel 1982 sposa l'attrice Amy Madigan, che nel 1993 gli dà una figlia, Lily Dolores.

Gli azzurri occhi vitrei, i tratti somatici duri e regolari, il corpo possente ma slanciato lo hanno reso particolarmente adatto ai ruoli di uomo d'ordine, facendogli indossare spesso la divisa del poliziotto o del militare. Il suo aspetto fisico ne ha fatto l'interprete ideale di un cinema che predilige il dualismo dell'epica alla complessità del reale, l'approccio mitico allo sguardo "oggettivo", l'icona al personaggio. Si pensi al generale dei Marines Francis Hummel, da lui interpretato in The Rock (1996) di Michael Bay, quintessenza delle caratterizzazioni unidimensionali tanto care a certi film di genere ad alto tasso spettacolare.


Su questo versante, uno dei risultati più alti l'attore lo raggiunge ne Il nemico alle porte (2001) di Jean-Jacques Annaud, dove le sue potenzialità espressive vengono valorizzate, Più che un nazista, il maggiore König è un aristocratico guerriero la cui algida raffinatezza non è disgiunta da un'ancestrale brutalità mai dimentica di un codice d'onore. Lo sguardo glaciale, l'espressione impenetrabile, il volto ridotto a maschera, i movimenti precisi, aggraziati e belluini nello stesso tempo, che tradiscono la sua teutonica fierezza: monumentale presenza scenica, Ed Harris smette di recitare in favore del puro "esserci", non interpreta più un personaggio ma incarna un titano, accede ad una dimensione sovrumana, al di là della Storia, dove si ricompongono barbarie e civiltà, violenza e ordine, caos e forma.

Il cortocircuito tra realtà e mito avviene in A beautiful mind (2001) di Ron Howard, dove l'attore veste i panni di William Parcher, agente segreto della C.I.A. che, durante il film, scopriamo essere una creatura immaginaria, frutto del delirio schizofrenico del protagonista, il matematico John Nash (interpretato da Russell Crowe). Completo nero e cappello a falde, arguto e deciso, Parcher rappresenta lo stereotipo dell'uomo d'azione, protagonista di numerosi film hollywoodiani, proiezione del desiderio di identificazione dello spettatore e sublimazione catartica della sua pulsione aggressiva. Ma purtroppo non esiste, se non nella fantasia: la natura archetipica del personaggio esibisce se stessa e il potere di falsificazione che l'arte opera nei confronti della realtà rappresentata appare in tutta la sua evidenza. Ed Harris è ormai consacrato come una delle icone cinematografiche dei nostri tempi.

Ma l'attore di Engelwood non è soltanto un'icona: la sua multiforme capacità mimica lo ha condotto ad interpretare i ruoli più disparati, tratteggiando degli indimenticabili ritratti di personaggi a tutto tondo. Si pensi ad Alamo Bay (1985) di Louis Malle, uno dei suoi primi film da protagonista, in cui presta il volto a Shang, un reazionario modello, razzista e violento, ottuso ma non privo di lacerazioni interiori. O al Bud Brigman di The Abyss (1989) di James Cameron, capo servizio presso una piattaforma petrolifera, borghese democratico e progressista, alle prese prima con i ben poco epici problemi sentimentali con la ex moglie e costretto poi a fronteggiare un manipolo di militari ottusi e paranoici: lo scontro finale tra i cunicoli sottomarini della piattaforma ci presenta un Ed Harris "guerriero" suo malgrado, fiero e valoroso nel battersi ma privo di quell'aura superomistica che contraddistingue invece altri uomini d'azione da lui impersonati.


Una delle sue interpretazioni più dense e sfaccettate (per la quale ha vinto il Golden Globe) è quella di Christoph, il regista di The Truman Show (1998) di Peter Weir: cinico ed ammaliante ad un tempo, caratterizzato da un evidente delirio di onnipotenza ma a suo modo "innocente", non privo di autentica fiducia in quello che si potrebbe definire il suo progetto creativo. Seguendo una delle tracce interpretative che il film ci offre, verrebbe di paragonarlo al Dio padrone e burattinaio, compassionevole e punitivo, di alcuni passi dell'Antico Testamento.

La versatile vena interpretativa di Ed Harris lo portato infine ad incarnare l'esatto controtipo dell'uomo d'azione: l'artista outsider, erede della tradizione romantica e decadente, minato dal malessere fisico ed esistenziale. Per il suo esordio nella regia dirige il film Pollock (2000, finalmente anche in Italia), in cui veste i panni del pittore statunitense  (con il quale presenta una straordinaria somiglianza fisica), maestro dell'espressionismo astratto e dell'action painting, instabile ed alcoolizzato. In The Hours (2002) di Stephen Daldry è invece Robert Brown, uno scrittore newyorkese malato di aids e prossimo alla morte, la cui lacerazione interiore (la sua infanzia è stata segnata dall'abbandono della madre) si riflette nel corpo ormai disfatto.


Da superuomo a martire, il percorso espressivo dell'attore lo ha reso interprete ideale della dialettica interna alla cultura cinematografica americana, la quale, contestualmente alla produzione di nuove mitologie, ha posto anche le basi per metterle in discussione, elaborando un punto di vista critico sulle stesse.

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