"In Her Shoes", di Curtis Hanson

“In Her Shoes” è prima di ogni altra cosa un grandioso affresco sulla vita delle scarpe, un fiammeggiante e immediato mèlo vissuto da tacchi, pantofole, scarponcini. Non quelle sportive, fantascientifiche e "disastrose" del Bloom di “Elizabethtown”, ma quelle comuni, banali, eppure bellissime che scandiscono le nostre giornate.

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A volte basta poco. Uno sguardo in campo lungo, un campo/controcampo visto mille volte, una macchina fissa su un volto.. Questione di leggerezza e di semplicità, di acume e di profondità. Già, ma non quella profonda, abissale, intoccabile. Semplicità semplice, eppure, ancestrale, da pelle d'oca. Semplicità da cercare in superficie? Certamente sì, ma attenzione, non stiamo vaneggiando. Il fatto è che siamo sorpresi e meravigliati. Non è una ripetizione. Sorpresi perché non ce la aspettavamo, meravigliati perché di fatto vorremmo prolungare la nostra meraviglia oltre ogni limite consentito, sì, fuori tempo massimo. E' una questione di pelle e di tatto, ancor di più forse di anima. Le cose stanno (più o meno) in questo modo: Elizabethtown e In Her Shoes. Curtis Hanson e Cameron Crowe. L'uno il prolungamento dell'altro, l'altro il preludio del primo. Se prima non vaneggiavamo, ora non scherziamo di certo. Colpa di queste due opere, di questi due schizzi di pura follia romantica che se ne stanno adagiati sul fondo del cuore a reclamare spiegazioni. Che, puntualmente, non sappiamo dare. Ci basti immaginarle come prosecuzioni, tracce di quella linea immaginaria che congiunge tempi e storie lontane, uomini che non si conoscono, donne che non si sono mai potute sopportare. Nel mezzo, noi. A vedere, guardare, immaginare, ricordare. Interattivamente, eppure, senza consolle, senza schermo, senza luce. Al buio delle nostre camere, o se preferite, accanto alla persona che amiamo. Cinema? Nel migliore dei casi, ebbene, sì. Forse oggi questo benedetto cinema (chissà se fra qualche anno si chiamerà ancora così), al di là dei luoghi/delle persone/degli autori/dei cinema è -ancora- questo. Vedere e toccare, annusare, ricordare. E poi, prima di tutto forse, inventare. Non solo il lieto fine, ma tutto il resto. Scrivere sul film, sbagliando nomi e sequenze, dialoghi e battute. Re-inventare allora il cinema come graffio soggettivo e anarcoide, libero da schemi e battitore di strade perdute, poi ritrovate, poi perse ancora una volta. Lo stesso movimento del Bloom di Elizabethtown, che perdutosi nella provincia, torna a casa. In Her Shoes finisce qui. Esatto, proprio laddove Elizabethtown iniziava. In Hanson come in Crowe c'è una famiglia da rivedere, un disagio iniziale da superare, un preciso limite da varcare. Bloom lo varca nella sequenza in cui dalla stanza d'albergo telefona alla Dunst. Cameron Diaz invece quando entra nel negozio d'animali, dopo aver fatto sua la lezione morale della sorella. Questione di riavvicinamenti a casa, di focolari domestici ustionati dalla distanza e aspersi dall'acqua del ritrovamento. Ma anche questione di corpi pesanti che si abbattono al suolo, cercando invano di confutare la legge di gravità. Volando, appunto, su camere e bagni, cucine, materassi, lavandini. Laddove insomma si consuma la nostra quotidianità.

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In Her Shoes, allora, ovvero, nelle sue scarpe, dunque nei suoi panni. Già il titolo gioca con ruoli e identità, maschere e facciate di comodo. La nostra vita insomma, catturata da Hanson con un fotografia sfocata, poi via via più nitida e precisa. Sfocata perché inizialmente si vedono solo piedi. Quelli della Diaz, per intenderci, che porta il 42, proprio come sua sorella. Unico tratto di somiglianza questo, per il resto si tratte di due mondi lontani, quasi agli antipodi. Eppure in tante meravigliose sequenze accese da intermittenze brucianti la Diaz si porta a spasso la vita della sorella. Uscendo con le sue scarpe. Tacchi a spillo per colloqui di lavoro, scarpe basse per la spesa e così via. In Her Shoes è prima di ogni altra cosa un grandioso affresco sulla vita delle scarpe, un fiammeggiante e immediato mèlo vissuto da tacchi, pantofole, scarponcini. Non quelle sportive, fantascientifiche e "disastrose" del Bloom di Elizabettown, ma quelle comuni, banali, eppure bellissime che scandiscono le nostre giornate. E'un atto fisico e passionale, la traccia infuocata di un sentimento che disarciona intenzioni e desideri, uscendo fuori se stesso. Indossare le scarpe altrui. Gesto d'amore sommesso e di pudore scavalcato, di intimità e di desiderio. Fare cinema come atto d'amore allora, certamente, ma ancor di più come atto di desiderio desiderante/desiderato. Nulla di più forte allora che aprire l'armadio, imbattersi nei viali, nelle superstrade, nei tappetini dell'automobile calpestati/toccati da quelle scarpe e infilarle. Profumano di vento e luce, di parole sussurrare e strillate, di marciapiedi bagnati, di autobus presi in corsa, di negozi affollati, di altre scarpe in fila al cinema o in banca. Colori e macchie del passato allora, ma non solo. Sibili modulati e poi irregolari del presente. Lo sguardo di Hanson lampeggia sui conflitti familiari, incanta la m.d.p sui corpi e sulle movenze, scalfendo gli scivolamenti delle parole e dei gesti in quel grandioso luna park che è l'incomprensione, l'amore timido e malcelato, e poi le cicatrici di ieri che bruciano con intensità anche maggiore oggi. E' questo il corpo a corpo che ci sfibra i tessuti e che strazia l'anima, questa la zona di massimo godimento possibile oggi al cinema, quel luogo in cui Hanson ci proietta come carne e brandelli di anima agitati dal fuoco lento del perdono, della pietà, del contatto. Corpo fra corpi, e poi granelli di luce strappati dall'oscurità (la scoperta delle lettere che la nonna ha scritto nel passato alle due nipoti), sino all'esplosione dello sguardo finale della Diaz che spalanca vertici di perdita e di ritrovamento. Sul selciato di una strada buia, sulle note di una musica lontana. A piedi nudi.

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Titolo Originale: Id.


Regia: Curtis Hanson


Interpreti: Cameron Diaz, Toni Collette, Shirley MacLaine, Mark Fuerstein, Brooke Smith, Francine Beers


Distribuzione: 20Th Century Fox Italia


Durata: 130'


Origine: USA, 2005

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