“In un mondo migliore”, di Susanne Bier

in a better world
A fronte di certi limiti residui (come il sovraccarico emotivo di qualche scena o la prevedibilità di alcuni snodi drammaturgici) a fare la differenza è la capacità della Bier di partecipare, rendendoli autentici, al dolore e ai conflitti dei suoi personaggi e, allo stesso tempo, di trasmettere una tensione etica non comune, che trova nel melodramma la lente attraverso cui osservare il nostro tempo e coglierne il malessere reale
 
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HævnenÈ la forza morale del singolo tutto ciò che rimane da contrapporre a una violenza che prolifera ovunque e in ogni forma a prescindere dalla latitudine, anche in quel modello di civiltà e progresso sociale che i paesi scandinavi continuano a rappresentare; anche nelle ordinate cittadine danesi, in quei paesaggi di limpida e riposante bellezza, il vivere civile è, dietro le apparenze, sempre sull’orlo di precipitare nella brutalità e nel caos: non nasconde di essere un’opera a tesi l’ultima pellicola di Susanne Bier, né la regista teme di schierarsi apertamente confrontandosi con gli interrogativi e le contraddizioni del presente. Lo fa attraverso un personaggio integro e schivo, un uomo che ha accettato di pagare un prezzo molto alto per i propri ideali, senza recriminare e senza lamentarsi. Medico in un paese africano afflitto da una delle tante guerre civili cadute nell’oblio, Anton, come il reduce di Non desiderare la donna d’altri, è il ponte tra un Terzo Mondo dissestato e perduto e una realtà domestica (e in questo caso anche sociale) che ha smarrito il proprio carattere di rifugio rassicurante. Il suo rientro a casa significa il confronto con la fragilità del proprio ruolo di padre, con la difficoltà enorme di tradurre l’esperienza, taciuta e indicibile, della quotidiana convivenza con l’orrore in un insegnamento che sia di qualche valore per un figlio adolescente irresistibilmente spinto dall’esempio altrui verso le scorciatoie delle reazioni a caldo, dell’emotività distruttiva, della vendetta. Elias e Christian, che si riconoscono e si accettano nella loro condizione di figli amati ma poco capiti, ognuno con il proprio fardello da portare, stringono un legame sostenuto da forze e dinamiche incomprensibili agli occhi degli adulti, quasi la loro amicizia fosse lo specchio, o il banco di prova, di un modo di essere genitori, di un certo sistema educativo, di un modello identitario maschile in cui le modalità di gestione dell’aggressività hanno un’importanza centrale. Ce la mette tutta Susanne Bier per far sentire il disagio di una società civile che cerca di non impazzire, e lo fa con un’intensità che difficilmente lascia indifferenti. Certo, esaurita l’onda emotiva, a mente fredda non si può non notare lo schematismo di certi passaggi narrativi, eppure è innegabile che con Hævnen il cinema dell’autrice danese sia cresciuto ulteriormente, sviluppando le tematiche di sempre (le dinamiche familiari, le difficoltà nella cura degli affetti, i capricci del caso che intrecciano le umane vicende) in una dimensione sempre più ampia, liberandosi quasi del tutto della rigida eredità dell’impronta “Dogma” come di certe derive verso l’indulgere eccessivo all’esposizione del dolore che si erano affacciate in Noi due sconosciuti. Ci sono diversi momenti in Hævnen – i migliori – in cui l’espressione del vissuto intimo si fa più controllata, come nei barlumi di innocenza che illuminano il rapporto, segnato dal rancore e dall’incoscienza, tra i due adolescenti, o nei brevi, strazianti momenti di verità tra Christian e suo padre, accomunati e divisi dal dolore per il medesimo lutto. Quel che è certo, è che a fronte di certi limiti residui (come il sovraccarico emotivo di qualche scena o la suddetta prevedibilità di alcuni snodi drammaturgici), a fare la differenza è la capacità della Bier di partecipare, rendendoli autentici, al dolore e ai conflitti dei suoi personaggi e, allo stesso tempo, di trasmettere una tensione etica non comune, che trova nel melodramma la lente attraverso cui osservare il nostro tempo e coglierne il malessere reale.

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