Incontro con Christy Hall, regista di Una notte a New York

Dialogo con l’autrice esordiente di un atipico film. Centrato sull’esistenza possibile e claustrofobica, di una conversazione notturna e senza filtri, scaturita da un inatteso incontro fortuito


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In occasione dell’uscita di Una notte a New York abbiamo intervistato Christy Hall, precedentemente autrice dello script di It Ends With Us – Siamo noi a dire basta, adattamento cinematografico dell’omonimo bestseller di Colleen Hoover, diretto da Justin Baldoni. Una notte a New York conduce oltre il proprio sguardo e indaga i rapporti e le comunicazioni tra uomini e donne, passando attraverso gli spazi del virtuale, incessantemente contrapposti a quelli del reale. Un po’ rom-com, un po’ dramma sui nuovi luoghi della parola, del rimosso e della potenziale conoscenza. Ecco cosa ci ha svelato la regista.

 

Sull’utilizzo di uno spazio principale ristretto come quello di un taxi, contrapposto a quello ben più esteso e caotico della metropoli. Quale significato attribuisce a questa scelta?

Bè sicuramente il taxi e il suo abitacolo, per me erano metafore del racconto al quale volevo dare vita. Dal mio punto di vista, rappresenta al tempo stesso l’umanità e la solitudine. A volte sali su un taxi e non puoi far altro che sentirti chiuso, dentro uno spazio estremamente circoscritto, perciò solo. Ma sei realmente solo, se quando sei lì dentro ti dimostri indisponibile alla condivisione dello spazio, quindi dell’ascolto e della parola con qualcun altro, che è o il conducente, o un altro passeggero. Accettando invece il dialogo, si apre una finestra, che è poi quella concreta che guarda al conducente, ai sedili anteriori e all’ignoto che fino a lì abbiamo appunto ignorato. Proprio lì infatti, può esserci spazio e tempo per moltissime opportunità di ingresso e condivisione emotiva con l’altro, con l’essere umano, con l’estraneo. Ma dobbiamo avere il coraggio e l’apertura per farlo. Questo è quello che volevo comunicare e spero di esserci riuscita. Il coraggio di rompere le barriere, perfino in spazi circoscritti e accettare fino in fondo la possibilità della condivisione e così della parola. 

Incontro con Christy Hall, regista di Una notte a New York

Il film porta avanti un lavoro estremamente interessante sui linguaggi. Innesca e disinnesca il virtuale, senza alcuna visione apocalittica. Senza mai suggerire: la conversazione, quella vera, sparirà. Qual è il tuo pensiero su questo?

Bé sicuramente non era mia intenzione banalizzare o accusare la tecnologia, né tantomeno renderla origine e causa di tutti i mali. Sarebbe stato ingenuo da parte mia dire: no basta, adesso dobbiamo tornare alle vere conversazioni, come negli anni in cui non c’erano i telefoni. Sappiamo benissimo che oggi, la maggior parte delle comunicazioni tra gli esseri umani, avvengono attraverso la tecnologia e i computer. Quindi è un dato di fatto e proprio perché lo è, ci è impossibile pensare di voler tornare indietro di vent’anni. Poi come si dice sempre, non è la tecnologia in sé ad essere giusta o sbagliata, è l’uso che ne facciamo. Quindi forzatamente tra gli intenti di questo film c’è quello di celebrare e onorare l’importanza delle connessioni tra gli esseri umani attraverso la conversazione. Se poi avviene di persona com’è tra il taxista e la ragazza, oppure con il telefono, non ha una reale importanza per me. Poiché ciò che è importante, è continuare a parlare, mantenere la parola, il dialogo, senza mai lasciarlo andare. Avrei trovato molto ingenuo oggi fare un film con una scena tipo: buttiamo fuori dal finestrino i nostri telefoni cellulari e parliamoci soltanto di persona. Hook – Capitan Uncino, il film a cui mi riferisco, è sicuramente un esempio di cinema del passato e in quanto tale, osservava l’oggetto telefono, come qualcosa di insolito, per nulla comune. Qualcosa di limitante, perciò la rinuncia non è un sacrificio, al contrario, una vera e propria liberazione per il protagonista. Oggi invece il cellulare lo abbiamo tutti, un po’ come i figli. Quindi tutta la nostra comunicazione passa necessariamente da lì. Proprio questo mi interessava, non dire basta al telefono e parliamo soltanto di persona, faccia a faccia tra di noi. Anzi sono contenta che tu mi abbia posto questa domanda. Dal mio punto di vista, era proprio una maniera per vedere come possiamo utilizzare la tecnologia in riferimento ai cellulari e alla parola. Poi mi piaceva anche l’idea che il telefono fosse un mezzo principale, o meglio, un apparecchio, che ci permettesse di mantenere tutti i nostri segreti. Ecco perché la protagonista chiacchiera, ha una conversazione di persona con il taxista, mantenendo allo stesso tempo tutto il suo mondo segreto, fatto anche di un certo tipo di immagini, celato nel suo telefonino e nelle sue chat. Due mondi e linguaggi che coesistono e soprattutto che possono coesistere, senza alcun giudizio, né da parte mia, né da parte dell’altro/a. Ecco perché non volevo in nessun modo colpevolizzare la tecnologia, o leggerla in maniera negativa. Piuttosto metterla al centro, rispetto all’importanza della comunicazione, che ora assume più volti, tempistiche e sfaccettature e che nasce, possiamo dire così, proprio sugli schermi che molti autori non smettono di condannare. Io non lo faccio, grazie di aver sollevato la questione. 

Una notte a New York è al cinema, a partire da giovedì 19 dicembre, distribuito da Lucky Red.


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