Incontro con Giuseppe Gaudino. Il cinema e la memoria – Parte 2

La seconda parte dell’incontro di giovedì 12 novembre con Giuseppe Gaudino si è svolta parlando dei suoi precedenti lavori e approfondendo il suo personale linguaggio cinematografico

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La seconda parte dell’incontro di giovedì 12 novembre con Giuseppe Gaudino si è svolta parlando dei suoi precedenti lavori, approfondendo il suo personale linguaggio cinematografico e discutendo dell’importanza dei festival oggi.

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Il cinema sperimentale

Ho sempre cercato questo modo di fare cinema. L’intelligenza si relaziona anche a questo, alla ricerca, alla curiosità. Non bisogna avere troppi strumenti per tentare di essere curiosi. Per fare un esempio musicale: va bene Renato Zero, ma va bene anche Bjork, non bisogna limitarsi all’uno o all’altro. Basta non ascoltare solo i Pooh! Quella che al cinema si definisce sperimentazione, in realtà è qualcosa che è vecchio come il cucco. Nei primi anni ’80 mi ero appassionato di Koyaanisqatsi, che sicuramente è sperimentale, ma all’epoca aveva molto pubblico. Il cinema “sperimentale” non lo fai per essere speciale o unico, lo fai perché è quello che sai fare. È un’elaborazione delle immagini. Inoltre nel mio cinema vi è un’idea del tempo come compresenza tra passato e presente. D’altronde è un tratto della memoria mescolare elementi lontanissimi.

Per questi stretti morire (Cartografia di una passione).

Io e mia moglie Isabella Sandri con la quale lavoro insieme da sempre, venivamo da dei documentari in Afghanistan e in Libano, erano dei lavori sulla morte e sul sopruso. Andando in Sud America ci siamo detti: vogliamo riprendere la bellezza, ma ci siamo ritrovati di fronte ad un’altra storia tragica. Tutto è partito dall’ immagine del cimitero degli indios spostato per far passare la Transiberiana. Si sono persi la memoria e il rispetto per questi monumenti, che sono finiti nell’oblio. Da lì è iniziato il documentario sulla storia di Alberto Maria De Agostini, che visse e viaggiò per le Terre del Fuoco tra il 1910 e il 1935: salesiano, cartografo, fotografo e cineasta che si disperò per la scomparsa degli ultimi indios e realizzò il film Terre magellaniche. Nel 1910 De Agostini decise di partire, di andare in giro per il mondo e documentare la perdita di quattro etnie in Patagonia. Oggi non esistono più discendenti diretti di quegli indios, sono tutti scomparsi. Per colonizzare quelle terre, i governi argentini e cileni permisero agli europei di trattarli come animali. Li rinchiusero in delle riserve, dove i religiosi li vestirono con abiti occidentali, pieni di batteri che per loro furono letali, morirono quasi tutti per malattia. Seguendo questa storia ci siamo appassionati alla figura di De Agostini: il suo Dio era in questi paesaggi e in queste persone. Siamo andati alla ricerca delle sue tracce e il documentario è anche su questa ricerca, tramite i personaggi che lo hanno conosciuto. Era un personaggio straordinario, lui e suo fratello da soli realizzarono l’impresa della mappatura dei confini tra Cile e Argentina. Fu un uomo che si mise in gioco, rischiando anche molto.

L’importanza dei festival oggi

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I festival sono importanti per confrontare le idee, anche se oggi sono molto costosi, con tutti quei soldi sarebbe meglio fare un film o un documentario. Per me il Festival di Venezia nel 1997 fu una gran cosa, ma non comportò nulla perché all’epoca non seguivo la parte distributiva dei miei lavori. Dal mio punto di vista un festival non dovrebbe rispettare la visione politica del suo direttore, come oggi succede. Oggi non ci si confronta con le nuove generazioni e le nuove proposte, almeno in Europa. Un esempio di buon festival internazionale per me è quello di San Francisco, ed è su base volontaria. Un altro aspetto importante di questo festival è la costante frequentazione dei registi. È questo che dovrebbe fare un festival, deve mettere a confronto, in relazione gli autori, che devono parlarsi su un modo diverso di dire le cose. Se ci fossero più occasioni di confronto, sarebbe molto meglio. I brutti film si fanno quando ci si isola. Ma i direttori dei festival negli ultimi cinque o sei anni purtroppo sono solo interessati ad accalappiare spettatori.

Quanto Per Amor Vostro: la memoria di una città

Di Napoli volevamo raccontarne la contraddizione, la bellezza e il suo contrario. Volevamo anche mostrare che è una città che ha qualcosa di strano, rappresentare i suoi rituali particolari, come ad esempio il rito delle anime del purgatorio, che consiste nell’adottare i teschi dei senza nome, degli ultimi degli ultimi, per regalarsi l’immortalità. Questo ci sembrava un grande gesto di empatia, volevamo raccontare quello slancio, ma non volevamo creare uno stereotipo.

Per Amor Vostro è la storia in soggettiva del personaggio di Anna?

Tutti gli attori del film sono stati selezionati per la loro intelligenza, perché hanno capito da subito che tutto ruotava attorno ad Anna (Valeria Golino) e che servivano le loro verità parziali. Prima di girare abbiamo fatto tante prove e non ci sono state grandi discussioni. Per il personaggio di Anna come per tutti i personaggi sapevo cosa non volevo. Non volevo una macchietta, uno stereotipo. Un personaggio come il suo si costruisce parlando molto con gli attori, e dicendogli cosa vuoi e cosa non vuoi. D’altronde più del 50% del film dipende dalla scelta dell’attore. E loro sono stati bravissimi, interpretare i testi non sempre era facile. Vedendo il film sembra tutto istintivo, ma c’è stato uno sforzo, una fatica. In particolare Adriano Giannini e Valeria sono stati bravissimi. Hanno reso veri dei testi di partenza molto retorici…

Perché la scelta di L’infanzia di Ivan come proiezione finale?

La scelta di far proiettare l’Infanzia di Ivan è relativa all’alchimia tra parole ed immagini presente nell’opera. Quello di Tarkovskij è un lavoro che fonde cinema per immagini al cinema di parola. I miei due amori sono L’infanzia di Ivan e Andrei Rublëv. Con L’infanzia di Ivan Tarkovskij già dà le coordinate su come entrare in una storia, da subito ti fa innamorare del protagonista, e ti fa capire la crudezza del racconto. Ci si immerge subito in questa storia vera sulla guerra. Amo molto anch Bergman, ma il suo è solo cinema di parola. Quando fece Fanny e Alexander fu meraviglioso, ma è un film solo di parola. Come saluto vi vorrei leggere uno scritto di Tarkovskij del 6 giugno 1980: “Ieri sera ho visto Il testamento di Orfeo: dove siete finiti o grandi? Dov’è la poesia? Solo denaro, denaro e paura”.

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