"Indagini sporche – Dark Blue": Ron Shelton e il poliziesco "umanista"

Shelton ha realizzato un poliziesco ruvido e viscerale come "Indagini sporche", teso e oscuro, a suo modo anche "politico", com'è nei cromosomi di questo tipo di film; politico dal punto di vista della forma, prim'ancora che dei contenuti

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Fa piacere imbattersi, di tanto in tanto, in film come Indagini sporche: oggetti grezzi e spigolosi, imperfetti e pulsanti, ancora sporchi di sangue e bollenti al tatto. Insomma, lontanissimi dall'asettico vuoto spinto che caratterizza la gran parte del cinema medio hollywoodiano degli ultimi decenni, affidato a quelli che John Carpenter chiama "shooters", cioè giovani registi solitamente provenienti da videoclip e spot pubblicitari, tecnicamente preparati ma privi di personalità e, quindi, pronti a eseguire senza discussioni le direttive degli executives che guidano gli Studi (e che sono sempre più simili – quando non lo sono per davvero – a manager di Wall Street).

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Ron Shelton non è uno "shooter" ma un regista americano "umanista": che conosce e ama la Hollywood classica e quella della rinascita anni Settanta-Ottanta, che vuole emozionare raccontando storie e, soprattutto, che sa frequentare "buone compagnie". Proprio assieme a "compagni" del calibro di James Ellroy (qui soggettista), David Ayer (sceneggiatore, già autore di Training Day) e Kurt Russell (interprete principale) il regista con un passato da stella del baseball (con i Baltimora Orioles) ha realizzato un poliziesco ruvido e viscerale come Indagini sporche, teso e oscuro, a suo modo anche "politico", com'è nei cromosomi di questo tipo di film; politico dal punto di vista della forma, prim'ancora che dei contenuti: basti pensare soltanto ai tanti primi piani sul volto "vissuto" e disperato del protagonista Kurt Russell, ai toni "dark blue" della fotografia di Barry Peterson, all'efficace commistione tra fiction e inserti quasi documentaristici (è persino ovvia, inoltre, la componente politica della trama, derivante anzitutto dall'ambientazione nella Los Angeles messa a ferro e fuoco nell'aprile 1992, durante i giorni che videro l'assoluzione dei poliziotti razzisti che avevano pestato Rodney King).


Con molta consapevolezza linguistica, Shelton decide di lavorare sui cliché tipici del genere cinematografico più codificato: a partire da quello razziale (la contrapposizione tra sbirro bianco corrotto e collega nero più onesto) fino all'altro della coppia di poliziotti formata dal duro veterano e dal novizio insicuro. D'altronde, non è la riproposizione di elementi già noti e familiari che deve preoccupare, in film come questo, dato che il poliziesco statunitense è universo autosufficiente e contemporaneamente "poroso", soltanto in apparenza sempre uguale a se stesso ma in realtà pronto a un'evoluzione senza soste, spesso mediante "spostamenti" minimi, appena percettibili, ma comunque presenti e pronti ad agire in profondità tra le pieghe del testo.


 

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