"Indagini sporche", di Ron Shelton

Né il velleitario impegno civile né l'aggancio all'attualità servono a dare spessore al film, che si risolve in un frullato di vecchi e nuovi stereotipi propri del poliziesco hollywoodiano; resta soltanto la professionalità dell'esecuzione, in grado di garantire una discreta tenuta spettacolare.

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Ron Shelton, autore di film come Bull Durham (1988) e Tin Cup (1996), si cimenta per la prima volta nel genere poliziesco, avendo a disposizione un soggetto dello scrittore James Ellroy. L'azione si svolge nel 1992 a Los Angeles, durante le calde giornate che seguirono all'omicidio di Rodney King – giovane di colore picchiato a morte da quattro poliziotti – e che sfociarono nella rivolta dei quartieri neri; protagonisti due agenti della speciale dai metodi poco ortodossi, che indagano su un caso di omicidio e rapina.

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Nonostante le accattivanti premesse, il film si risolve ben presto in un insieme di vecchi e nuovi stereotipi propri del poliziesco hollywoodiano, da quelli tradizionalmente appartenenti al genere (come il rapporto tra il "sergente" e la "recluta", nonché il confronto tra lo sbirro buono e quello cattivo) ai nuovi cliché del filone losangelino-afroamericano dell'ultimo ventennio (si veda il ritratto d'ambiente, a base di neri arrabbiati e musica rap di sottofondo), fino allo smascheramento pubblico del "cattivo", che ultimamente sembra andare molto di moda. Neanche il dichiarato impegno civile riesce a dare spessore all'opera. La rappresentazione del conflitto razziale si traduce in una manichea e falsificante contrapposizione tra poliziotti onesti (i neri) e disonesti (i bianchi), mentre la denuncia della corruzione delle istituzioni, restando sganciata da ogni ulteriore approfondimento storico-sociale, sfocia in un astratto umanitarismo che finisce per assumere una connotazione restauratrice: l'happy end, si sa, è d'obbligo (sempre di Hollywood – e di uno dei suoi mentori – stiamo parlando) e le premesse pessimistiche si ribaltano in una rinnovata fiducia nel sistema (americano), la quale si fonda sull'ennesimo conflitto tra la "mela marcia" e l'individuo dotato di salvifico spirito d'iniziativa. L'aggancio all'attualità, inoltre, non essendo organicamente intrecciato alla vicenda narrata, non può che risultare posticcio, quando non strumentalmente utilizzato a scopo effettistico (lo scoppio della rivolta contribuisce notevolmente ad immergere il finale in un'atmosfera suggestiva).


Resta soltanto la professionalità dell'esecuzione, in grado di garantire una discreta tenuta spettacolare. Ma l'abuso di moduli narrativi collaudati e l'anonimato stilistico di Shelton inclinano inevitabilmente verso la serializzazione dello sguardo, da sempre rischio latente del sistema cinematografico hollywoodiano, che oggi sembra sempre più vicino al collasso (estetico) per saturazione espressiva.


 


Titolo originale: Dark Blue 
Regia: Ron Shelton
Sceneggiatura: David Ayer, da un soggetto di James Ellroy
Fotografia: Barry Peterson
Montaggio: Paul Seydor
Musica: Terence Blanchard
Scenografia: J. Dennis Washington
Costumi: Kathryn Morrison
Interpreti: Kurt Russell (Eldon Perry), Scott Speedman (Bobby Keough), Ving Rhames (Arthur Holland), Michael Michele (Beth Williamson), Brendan Gleeson (Jack Van Meter), Lolita Davidovich (Sally Perry), Darrell Foster (Sergente Jakes), Jamison Jones (Frank), Kurupt (Orchard)
Produzione: Alphaville Films, Cosmic Pictures, InterMedia Film Equities Ltd.
Distribuzione: CDI
Durata: 110'
Origine: USA, 2002

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