Indizi di Felicità, di Walter Veltroni

Veltroni orchestra un insieme di 25 interviste sul tema della felicità in bilico tra documentario ed inchiesta. Un’idea di cinema per concetti basici in cui il ricordo sovrasta il quotidiano.

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Quali sono le cose che fanno la felicità? Non esiste una felicità che comprenda una vita intera. La felicità esiste anche perché esiste il dolore. La felicità non è mai uno stato permanente. È una condizione che non ha tempo. Può essere una giornata, un mese, un istante. Può essere un’esperienza vissuta o un pensiero. La felicità è relativa, relativa alla condizione sociale, anagrafica, psicologica, umana di ciascuno. Vorrei trovare la felicità vissuta e quella raccontata, quella immaginata e quella perduta. Cercheremo le persone che possano raccontarci esperienze di felicità, quei momenti unici nei quali si è sentita la pienezza delle possibilità della vita. Luoghi, persone, momenti: gli indizi di felicità. Un sentimento possibile, anche in tempi di passioni tristi (…) È legittimo, è pensabile cercare di essere felici, in tempi così complessi, controversi, pieni di paure come quelli che stiamo vivendo? Si può ancora conoscere quella inebriante sensazione di un minuto o di una vita, mentre intorno tutto sembra franare? Indizi di Felicità costruisce delle ipotesi di felicità a partire da persone comuni, dal loro vissuto personale, familiare, professionale: un incontro importante, l’arrivo di una notizia a lungo attesa o un momento di crisi profonda. Perché, anche quando non ce lo si aspetta, la felicità esiste, non è un miraggio, ma una concreta esperienza, vissuta e possibile”.

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Due pilastri sonori dell’immaginario cinematografico pop della società contemporanea occidentale fanno da cornice al quadro delle testimonianze, dei volti e delle parole di Indizi di Felicità, terzo lungometraggio del sessantunenne ex Ministro per i Beni Culturali ed Ambientali (1996-1998), Sindaco di Roma (2001-2008) e Segretario del Partito Democratico (2007-2009), Walter Veltroni (Quando c’era Berlinguer, 2014; I Bambini Sanno, 2015). Si tratta di Over the Rainbow (musica di Harold Arlen, testo di E. Y. Harburg, 1939, interpretata da Judy Garland, nello stesso anno, ne The Wizard of Oz di Victor Fleming) e di Singin’ in the Rain (musica di Nacio Herb Brown, testo di Arthur Freed, 1929, portata al successo da Gene Kelly nell’omonimo film del 1952). La prima accompagna, in apertura di pellicola, il viaggio su un treno di Perth di persone comuni, lavoratori, studenti, pensionati, e assume i contorni di una “forzata” e, pian piano, condivisa partecipazione collettiva quando dei giovani musicisti, muniti di entusiasmo e di smartphone, registrano il loro tentativo di coinvolgere i viaggiatori nell’intonare insieme quello che è diventato un vero e proprio inno di ottimismo. Slogan: “Non è quello che abbiamo, ma quello che ci piace a darci la felicità”. La seconda chiude il documentario sui movimenti di una danza di coppia al chiuso che si trasforma gradualmente in una plastica polifonia di ballerini, a perpetuare ad libitum sfumando l’illusione della felicità e la speranza nel futuro. Due momenti che evidentemente rappresentano, su pentagramma, ciò che idealmente costituisce per l’autore il background musicale che sintetizza l’assunto di partenza. Potere e magia della condivisione.

walter-veltroni-regista (1)Sorrisi. Over the Rainbow finisce. Stacco. A seguire, sette minuti di orrori, catastrofi e tragedie, montati nel più classico dei dossier televisivi, ma senza soluzione di continuità, da un abominio all’altro: dall’11 settembre 2001 agli attentati terroristici di Londra e Madrid, dalle “carrette del mare” che scaricano cadaveri su cadaveri nel mare rosso sangue a poche miglia dalle coste italiane alle giovanissime vittime dell’eccidio di Utøya, dai bombardamenti di Aleppo alle macerie di Amatrice, dalla scuola di Beslan in ostaggio dei separatisti ceceni e dei fondamentalisti islamici ai recenti attacchi a Parigi. E ancora, dal cadavere di Gheddafi alle immagini iconiche dei bambini vittime di guerre e disperazione, come i siriani Aylan e Omran. Stacco. Subentra il frammento probabilmente più retorico dell’intero girato: antichi tesori sommersi nelle profondità degli abissi in una dimensione liquida e amniotica a simboleggiare insieme l’idea di una felicità sepolta ma esistente, prenatale ma rivivibile, con la voce off del regista che recita “perché in fondo al tunnel, c’è, ci deve essere, una luce”.

Solo allora hanno inizio le interviste alle persone, più o meno, comuni. Intendiamoci: Benedetto Carucci Viterbi, Guido Emilio Tonelli, Ubaldina Pannocchia e Samuel “Sami” Modiano non sono certo gli ultimi arrivati, pur provenendo da direzioni e situazioni quanto mai distanti. Ed è a quel punto che Indizi di Felicità si muove tra un salotto televisivo à la Il Senso della Vita di Paolo Bonolis – ma il massiccio contrappunto pianistico di Danilo Rea e la magniloquenza di alcune inquadrature paesaggistiche e fisionomiche ne denunciano l’ambizione cinematografica – e i reportage di inchiesta sociale “dal basso” à la Giuseppe Marrazzo e Vittorio De Seta – laddove mancano il taglio giornalistico, le specificità del linguaggio documentario e la presa diretta di ciò che si racconta. È proprio il rabbino e scrittore romano ad introdurci al tema-soggetto, in quello che si rivela il momento più riuscito ed illuminante della pellicola. Carucci illustra con efficacia l’etimologia della parola “felicità” che, seguendo la radice ebraica, riguarda la dimensione del viaggio, del movimento verso, del cammino: non è necessario raggiungere la meta per esperirla, essa si può conquistare durante il tragitto.

indizi-di-felicita-2017-walter-veltroni-03Indizi di Felicità esce con un tempismo perfetto per celebrare la 51a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali. Dopo un lungo lavoro di selezione delle storie da raccontare – inizialmente, ha rivelato il regista, erano circa 300 – scorrono sullo schermo 25 ritratti. Sintetizziamone alcuni: una signora anziana ricorda con emozione il primo abbraccio con il padre – reduce dalla prigionia di guerra tra il 1943 e il 1946 dopo la Campagna d’Africa – praticamente mai visto e la dolce sensazione di sentirgli pronunciare il suo nome; una sopravvissuta italiana rivive i drammatici momenti dell’attentato alle Torri Gemelle del 2001; un giovane trentenne coniuga la passione calcistica per la Sampdoria e la frequentazione della curva con la scoperta della vocazione sacerdotale; un ragazzo somalo arrivato in Italia per scampare a conflitti e miseria studia per ottenere la licenza media e impara il mestiere di pasticciere; un surfista giovane e riccioluto apre un’attività per insegnare ai disabili a cavalcare la cresta dell’onda; una coppia di salumieri vegetariani racconta la propria esperienza con un figlio affetto da una rara malattia della crescita; un piccolo produttore di liquori ci parla della sua lotta con un tumore diagnosticato come terminale e miracolosamente sconfitto; un canuto signore esprime la sua angoscia legata al timore di perdere la sua meravigliosa baita, messa all’asta dopo un fallimento. Ci sono, appunto, le testimonianze di Ubaldina Pannocchia – ancora ragazza quando Mussolini dichiarò l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno del 1940 e, in seguito, impegnata nella lotta di liberazione antifascista come “staffetta partigiana” – che racconta la storia d’amore con l’uomo con cui avrebbe condiviso i suoi giorni per cinquanta anni; e di Samuel Modiano – sopravvissuto al lager nazista di Auschwitz-Birkenau – che, nel segmento di gran lunga più intenso e toccante, narra dei furtivi incontri, attraverso il filo spinato elettrificato, con la sorella Lucia, della fine di quest’ultima e dello strazio del padre che scelse di andare incontro alla morte, anticipando una sorte già scritta. Esperienze, queste ultime, che di ordinario e comune non hanno proprio nulla, così come quella vissuta da Tonelli quando, con il suo team, si rese conto di aver travalicato i limiti dello scibile fisico con la scoperta del bosone di Higgs, meglio noto come la “particella di Dio”. Qui la straordinarietà del vissuto, dall’inferno della cancellazione di ogni sentire umano all’ebbrezza della scoperta scientifica, diventa exemplum ed epica, anche perché quella stessa straordinarietà ha fatto sì che il racconto divenisse lezione, monito, libro o diario, esercitando l’ascoltatore alla disposizione empatica.

TroupeVeltroni si sforza di ridurre al minimo la presenza della voce off per lasciare pienamente il campo alla persona, al testimone, all’esperitore di questo istante infinito e sembra andare alla ricerca egli stesso di qualcosa che lo convinca che – non ce ne vogliano Samvise Gamgee ed Eric Draven – “c’è ancora del buono in questo mondo” e “non può piovere per sempre”. Su tutto aleggia il sentimento veltroniano per eccellenza, quell’approccio didascalico e pedagogico, indubbiamente sincero, che ha foderato tutti i campi di espressione della poliedrica attività dell’ex leader dei Democratici di Sinistra (1998-2001) dopo l’abbandono della politica ufficiale, dalla narrativa al cinema e alla saggistica. Il genere documentario è più che altro un medium declinato in una visione piuttosto arbitraria e naif con il quale rivestire della propria passione per il mondo del cinema la scelta di affrontare tematiche e concetti di respiro filosofico, etico, socio-politico. Ci sono le persone e i loro racconti, ci sono questi frammenti di speranza, queste schegge di felicità. Ci sono tanti sorrisi e qualche lacrima. Non c’è molto altro perché per l’autore non c’è bisogno di altro. Cambiano l’argomento e la fascia anagrafica degli intervistati, ma la struttura resta simile a quella de I Bambini Sanno.

Concetti complessi, sfumati e astratti sono resi fruibili ed immediatamente riconoscibili da una partitura registica che organizza il discorso audio-visivo ed espositivo in compartimenti rassicuranti, in blocchi contrapposti dove violenza e fiducia, orrore e forza di volontà, guerra e pace si sfiorano senza incontrarsi, si isolano in segmenti emotivi e in frame narrativi categorizzati e basici. Antinomie, aporie, dubbi e contrari sono cristallizzati attorno a poche immagini, pure accuratamente selezionate, nelle quali tutto è già accaduto ed è stato psicologicamente ed emotivamente assorbito, introiettato, filtrato attraverso il vaglio critico ed espresso tramite la mozione degli affetti. Latita, invece, una poetica del quotidiano, un momento cogente e in divenire per vivere il quale occorre calarsi nel torbido e “sporcarsi le mani”, scegliere hic et nunc e costruirsi un’idea, seppur vaga, di felicità. Nella maggior parte dei casi, gli indizi di cui parla il titolo hanno l’eterea consistenza stratificata del ricordo – acre, terribile o dolce – tale comunque da corroborare il racconto e portarlo su un piano assertivo o da addolcirne l’intensità in una dimensione elegiaca. Il che sembra avvalorare la tesi che una possibile idea di felicità consista nella ricomposizione di un dramma, di una ferita, di uno shock, nella decantazione di un bouquet di aromi e sapori sprigionatisi da una botte invecchiata nella cantina degli anni. Assai più raramente queste tracce minerali di felicità vengono estratte nell’attimo che fugge, nell’oggi o, ancor meno, sono annusate in un futuro, prossimo o anteriore che sia. Quando ciò accade, come nel caso di Bruno Mazza, dell’Associazione “Un’infanzia da vivere” nel quartiere Parco Verde di Caivano, comune del Napoletano – un ex detenuto rimasto orfano di padre da bambino, imbrigliato fin da ragazzino nella rete della criminalità con piccoli furti e rapine a mano armata per passare poi allo spaccio, diventando il braccio destro del boss locale, e cambiare infine prospettiva e modo di vedere le cose attraverso l’impegno a far sì che i ragazzi del quartiere non commettessero gli stessi atti che lo avevano portato alla rovina – ecco che la felicità assume le sembianze evanescenti e duttili di una speranza tutta da modellare, sempre che si inveri. Solo in pochi casi la felicità sembra acquistare un corpo tangibile ed una dimensione concreta attraverso un’azione declinata nel presente e proiettata nell’avvenire, come nelle storie dell’operaia che rileva con i colleghi l’azienda prossima alla bancarotta o dell’ex impiegato comunale di Venezia che decide di punto in bianco di mollare un posto – comunque ambito, con i tempi che corrono – per trasformare le sponde della Giudecca in un giardino fiorito, popolato da specie esotiche e da un unico, frondoso pioppo. Altre volte sono il dialogo e il confronto con l’altro – il diverso, il disabile, l’ultrà pallonaro – a far assaporare stille di felicità. E allora questo concetto così vago e universale si veste delle emozioni della condivisione, della comunione. Se la fotografia di Davide Manca vira simbolicamente su tonalità di una luminosità mattutina e indugia su volti che ricordano e luoghi da ricordare eccedendo in un paesaggismo bucolico en plein air, il pianoforte di Danilo Rea si insinua tra le pieghe delle parole e dà voce ai silenzi, a volte in una misura sinceramente ridondante.

Va dato atto a Veltroni di essere riuscito, sia pure faticosamente e parzialmente, a contenere entro una misura accettabile la rischiosissima tendenza all’enfasi narrativa e allo stillicidio sentimentale che un simile soggetto e la sua messinscena cinematografica, filmica o documentaristica che sia, inevitabilmente comportano. Ma la sensazione ultima è che ai cento e più minuti di questi Indizi di Felicità preferiamo scorrere le pagine di un libro e – si perdoni il calembour lib(e)rarci sulle ali di frasi come: “Crea tutta la felicità che sei in grado di creare, elimina tutta l’infelicità che sei in grado di eliminare: ogni giorno ti darà l’occasione, ti inviterà ad aggiungere qualcosa ai piaceri altrui o a diminuire qualcosa delle loro sofferenze (Jeremy Bentham) oppureLa felicità è di per sé una forma di gratitudine (Joseph Wood Krutch).

Titolo originale: id.

Regia: Walter Veltroni

Origine: Italia, 2017

Distribuzione: Nexo Digital

Durata: 103’

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