Infinity Pool, di Brandon Cronenberg
Il terzo film del regista brilla nella sua imprecisione, e lo mette al vertice di una poetica sempre più definita, aiutata dalle interpretazioni di Mia Goth e di Alexander Skarsgård. Berlinale Special
Nel libro Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde un quadro avatar invecchia al posto del protagonista, lasciando a lui un viso innocente. In Infinity Pool succede qualcosa di diverso, ma di sostanzialmente simile. Viene creato un clone da giustiziare in luogo del criminale. Girato tra Ungheria e Croazia, lo spazio del film ricostruisce uno stato autoritario attraverso un resort di lusso circondato da filo spinato e controllato da guardie armate. Un’area protetta, segno iniziale di una divisione di classe, e metafora di civiltà contro barbarie, destinata a crollare in un rapido ribaltamento delle premesse.
Dopo la purezza estetica riflessa di Antiviral ed il fanta-thriller Possessor, Brandon Cronenberg escogita una nuova ricombinazione degli elementi in chiave psicologica ed edonistica, e soprattutto può contare sulla presenza nel cast di Alexander Skarsgård, nella parte di uno scrittore mediocre in vacanza con la moglie, e di Mia Goth, nelle vesti di una ricca e perversa turista annoiata. Al primo torna utile la rabbia furiosa di Amleth, interpretato in The Northman, alla Goth la vena sanguinaria di Maxine, figura centrale della trilogia di Ti West (X: A Sexy Horror Story, Pearl, MaXXXine).
L’effetto lisergico provocato dalle erbe allucinogene si manifesta in un trip erotico, forse banalizzato da un montaggio eccessivo, che esprime una psichedelia più vicina agli stati di alterazione immersiva di Ken Russel piuttosto che alle atmosfere cormaniane di The Trip, diffusa dalle note striscianti del gruppo The Electric Flag. Il viaggio sciamanico dei personaggi divaga tra crudeltà, umiliazione, sadismo, complicato dal dubbio di un’identità messa in discussione, e lascia emergere un dilemma etico di natura soggettiva oltre quello macroscopico di un iniquo rapporto di potere fra gli stati, le impunità e le ingiustizie provocate dal dominio economico. Perseguitato dalla necessità di essere perfetto per non deludere il lascito genetico e di poter gridare sui social all’ennesimo capolavoro, Infinity Pool brilla di una imprecisione che non compromette l’accessibilità della storia né gli aspetti fascinosi ed ambigui dei suoi interpreti. Anzi, il maggiore apporto attoriale attenua i lati concettuali e lo rende il prodotto di una maturità autoriale ormai acquisita.