Intervista a Icíar Bollaín

L’attrice e regista spagnola presenta il suo nuovo film al Festival del Cine Español y Latinoamericano, e ci parla di cambiamento, di empatia, di terre e libertà.

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Iciar Bollain è a Roma per partecipare al Festival del Cine Español y Latinoamericano e presentare il suo nuovo lungometraggio Maixabel, film di chiusura della kermesse, la cui data di distribuzione è ancora incerta, ma sarà fissata probabilmente nel 2023. Il film racconta la storia di un’attivista e politica spagnola, Maixabel Lasa Iturrioz, a cui l’ETA (Euskadi Ta Askatasuna,un’organizzazione armata basco-nazionalista indipendentista sciolta nel 2018) ha ammazzato il marito Juan María Jáuregui nel 2000, e di come lei abbia deciso di incontrare gli assassini finiti in carcere per quello ed altri omicidi.

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Uno scenario che sembra ripetere quello che si trova spesso nella cinematografia della regista spagnola, a partire da Te doy mis ojos o anche in También la lluvia, il bisogno e la necessità di superare il rancore e trovare la strada del dialogo, nonostante il dolore che ne segue. Lo spiega bene lei stessa: Maixabel, più che di perdono, parla di concedere una seconda chance, di avere una seconda possibilità nella vita. Né gli esponenti di ETA, né Maixabel parlano di perdono, che è un concetto religioso, e loro non sono religiosi. E sopratutto anche gli esponenti di ETA dicevano adesso non gli posso passare pure il carico di dovermi perdonare. Il concetto di Maixabel è proprio quello di dare una seconda opportunità. Soprattutto i miei film credo che parlino della possibilità di cambiamento che hanno le persone. La possibilità di ognuno di noi di vedere dove ha sbagliato, dove ha fatto le cose non come avrebbe dovuto farle, di pensare a come migliorare, avere la capacità di ascoltare gli altri. Gli esseri umani sono capaci di bene e di male, però credo che la possibilità di empatizzare con l’altro sia una qualità profondamente umana. Anche il male appartiene agli esseri umani, gli animali possono compiere il male senza rendersene conto, però oltre a poter fare il male l’essere umano ha una grande capacità di empatia. Quindi più che il perdono parlerei della possibilità di cambiare.”

Elemento centrale dei dieci lungometraggi di Icíar Bollaín è senza dubbio la figura della donna, vero motore dinamico delle storie, e che assumono spesso il ruolo delle protagoniste, basti citare per conferma tre delle produzioni più recenti, El Olivo, Yuli ed il penultimo Il matrimonio di Rosa. Nonostante l’estrema eterogeneità delle tematiche affrontate, dalla violenza domestica al razzismo all’emancipazione, dietro i suoi personaggi femminili ci sono sempre caratteri forti e sensibili. “Diciamo innanzitutto che le donne nei miei film hanno cambiato la loro età. All’inizio erano personaggi che avevano venti anni, adesso ne hanno cinquanta, come è successo a me. A partire dal primo film (Hola, ¿estás sola?), e questo risale ormai a 25 anni fa, mi ero accorta che le donne non avevano una presenza nel cinema che corrispondesse ala loro presenza all’interno della società. Quello che vedevo, e che vedo, è che ci sono donne che hanno nella società potere, con un grande impatto per quello che fanno, hanno una grande influenza. Ed invece poi tutto questo non traspare nei film, non è sullo stesso piano nel cinema. Questo in Spagna, ma credo anche in altri posti, un po’ ovunque. Hollywood quello che ti presenta è un uomo bianco, eterosessuale, di trent’anni in media. Ma diciamo che nel mondo mi pare ci sia molto altro. Quindi iniziando a fare cinema ho visto che mi mancava la presenza femminile, ma non l’ho fatto in modo militante o femminista, è una cosa nata semplicemente dalla mia intuizione, da quello che vedevo attorno a me, dalle donne con cui mi identificavo, e donne come Maixabel che ammiravo.”

L’altro elemento forte è la territorialità, la presenza delle radici, i luoghi dove si nasce e che continuano a vivere dentro di noi anche quando siamo lontani, scritto in maniera indelebile in un diario di bordo che continua ad aggiornarsi giorno dopo giorno. L’ambiente dove si è nati e cresciuti è fondamentale per stabilire il futuro ed orienta le scelte da fare in senso positivo o negativo, come capita sovente ai fanatici sovrastati da un muro di propaganda che non riescono a superare per guardare oltre. Dice Icíar Bollaín: “In ognuno di noi c’è un attaccamento alle proprie radici, però c’è gente che se ne va e lascia, si stacca da questo. Ad esempio nel succede nel mio secondo film, Flores de otro mundo, ed anche in Katmandu c’è questa voglia di inserirsi in un’altra cultura e di provare a trovare un equilibrio. Senz’altro il posto da dove veniamo ci segna molto e lo portiamo dietro dovunque andiamo, come un’eredità. Però possiamo cambiare, soprattutto liberandoci della parte negativa di quello che ci portiamo dentro. In Maixabel gli uomini di ETA sono il frutto del loro contesto, del loro ambiente. Sono cresciuti in un paese violento, dentro un quartiere operaio, abituati alla violenza della polizia franchista. E quel clima lo hanno fatto proprio. Era molto difficile che una persona che viveva a Madrid potesse diventare un membro dell’ETA, e molto più probabile ci finisse invece chi avesse avuto conoscenza della violenza nei paesi baschi. È difficile sfuggire al mondo da cui provieni. Però se ti fermi, se ci rifletti, dopo puoi anche cambiare, come si vede nel film. Comunque queste persone erano davvero vittime di una violenza enorme da ogni parte, e l’hanno assorbita. È una questione molto complessa, ETA tra l’altro ha vissuto per cinque decadi, per cinquanta anni, passando attraverso fasi diverse. Gli stessi componenti della troupe con cui lavoravamo, che erano tutti dei paesi baschi, mi hanno detto che ETA in qualche modo sia era appropriata di tutte le idee progressiste della regione. Qualunque iniziativa sorgesse veniva convogliata al suo interno: il movimento antinucleare, il movimento femminista, l’obiezione di coscienza al servizio militare. ETA fagocitava tutto e diventava suo appannaggio esclusivo, tutto veniva inserito e portato nella sua causa. Ma l’unica via per ottenere tutto era la violenza. Quando poi queste persone si sono trovate in carcere ed hanno avuto più tempo di pensare che dopotutto in cinquant’anni ETA non aveva ottenuto nulla. Quindi hanno cominciato a chiedersi, era questa l’unica strada, non c’erano alternative per portare avanti queste battaglie, il dialogo o altre modalità?”

A conclusione dell’intervista il ricordo dei primi anni della carriera, cominciata casualmente dopo la partecipazione ad un progetto bello e riuscito diretto da Víctor Erice, avvenuto qualche anno prima di inziare a pensare di passare dall’altra parte per condividere il proprio personale sguardo. “Per anni ho tenuto le cose insieme, ho fatto sia l’attrice che la regista. Per natura mia propria sono più regista che attrice. Ho cominciato a recitare per caso, a 15 anni, in un film molto bello, El Sur. Ma quello che mi piace è raccontare delle storie, anche da attrice volevo sempre vedere cosa succedeva dietro la macchina da presa. Trovo più divertente e creativa la parte della direzione. La regia inizia molto molto prima delle riprese; c’è tutto il lavoro sul casting, sulla sceneggiatura, mi piace sopratutto il lavoro di squadra, mentre invece quello dell’attore è un lavoro più solitario,. È vero che ci sono gli altri interpreti, ma sei molto concentrato su te stesso. Mi piaceva lo sguardo da dietro la macchina da presa. Sono entrata in una piccola produzione con il mio partner dell’epoca, abbiamo cominciato a girare dei corti, ero sia davanti alla macchina da presa che dietro. Quando ho fatto Terra e libertà di Ken Loach avevo già la sceneggiatura del mio primo film e subito dopo la fine ho iniziato a girarlo. Tra dirigere un film e recitare non è che ci sia un enorme differenza, c’è molto in comune. Un attore se crea la giusta relazione può aiutare molto un regista a raccontare una storia, a prescindere dal proprio personaggio. E anche quando sei regista non smetti di recitare, partecipi al casting, io stessa quando scrivo ripeto le battute a voce alta, magari da sola a casa. Poi se un attore ha un desiderio di raccontare una storia, passa sempre dietro la macchina da presa.”

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