Intervista su "La parola amore esiste"

da Sentieri selvaggi, n.2, maggio 1998

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«per me è sempre un problema di moralità quando giro un film»

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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conversazione con Mimmo Calopresti
a cura di Federico Chiacchiari e Simone Emiliani

SENTIERI SELVAGGI: Guardando il tuo film, ci sono venuti in mente Troisi e Garrel, quel realizzare un film in cui in ogni inquadratura si parla d’amore. Soltanto Troisi in Pensavo fosse amore…invece era un calesse e Garrel in tutti i suoi film sono riusciti a fare una cosa del genere.

MIMMO CALOPRESTI: Troisi mi è sempre stato molto simpatico. “Pensavo fosse amore…invece era un calesse” mi è particolarmente piaciuto e lo ricordo molto bene. Il cinema di Garrel poi, un po’ lo conosco. Valeria (Bruni Tedeschi, ndc) ha anche lavorato nel suo ultimo film, che in Italia non è mai uscito. Una volta l’ho anche incontrato.

SENTIERI SELVAGGI: Comunque questi legami sono inconsci?
MIMMO CALOPRESTI: Assolutamente inconsci. Non ho mai pensato, almeno direttamente, a loro. L’unico mio intento era quello di mostrare come molte persone siano ossessionate da questa parola. Anche quando uno si trova, ad esempio, a tavola, alla fine parla sempre delle proprie storie d’amore. E questa mania di Angela di riconoscere le persone attraverso i libri e i segni, nella realtà è molto più diffusa di quanto pensiamo. L’amore è continuamente presente nella nostra vita, sempre.

SENTIERI SELVAGGI: Questo titolo ci ha già condizionato prima della visione del film. Ci siamo detti: “Un film con un titolo così non può non essere bello”… da dove viene?
MIMMO CALOPRESTI: Il titolo è tratto da un volume di Marguerite Duras che si chiama C’est tout, un libro di poesie che ha scritto prima di morire. A un certo punto su un foglio bianco c’è la scritta “La parola amore esiste”. Tutti noi sappiamo che è così. Il problema è prenderne coscienza. Il titolo può essere una domanda (Esiste la parola amore?), oppure una risposta, una frase affermativa (La parola amore esiste!), può essere anche un grido di dolore…

SENTIERI SELVAGGI: A un certo punto alla protagonista chiedono: “Ma tu sei credente?” e lei risponde “Si, io credo nell’amore”. L’amore quindi come atto di fede…
MIMMO CALOPRESTI: Credo che l’amore per molte persone sia proprio un’ideologia, un credo a cui appigliarsi. Bisogna sempre dare importanza alle cose che si hanno, che si fanno, che si vivono. L’amore forse è alla fine qualcosa di molto piccolo che però ci appartiene veramente e fortemente. Questo titolo mi piace perché ha molte possibilità di lettura e permette a chi lo legge di confrontarsi, di chiedersi qualcosa.

SENTIERI SELVAGGI: Quella sorta di intimità che percorre tutto il film, c’era anche sul set?
MIMMO CALOPRESTI: Guarda, quando devi girare alla fine prevale il fatto che il film lo devi girare, che hai tempi di lavorazione limitati e che comunque lo devi finire. I problemi sul set arrivano sempre. Il cinema poi è composto da molte persone, gli elettricisti, i tecnici, ecc… A Roma queste persone, lavorando da anni, quando vedono un nuovo regista pensano: “Ecco, è arrivato un altro, chissà cosa vuole, cosa crede di fare, perché vuol fare le cose diverse dagli altri…”. Persone che ti guardano con aria sospetta magari perché hanno lavorato con Fellini. E poi io non mi arrendo mai a non fare le cose che voglio fare.

SENTIERI SELVAGGI: C’è una rappresentazione di Roma come non si è mai vista, soprattutto per quel che riguarda i colori. Con quei grigi, quegli azzurri, sembra quasi di stare a Parigi. Poi tu, in conferenza stampa, hai raccontato che l’idea di questo film ti è venuta a Parigi…
MIMMO CALOPRESTI: Quando ho girato La seconda volta, a Torino c’era gente che mi ha detto che ha scoperto una città che pensava di non conoscere. Ho mostrato una Torino alquanto quotidiana. E per Roma di La parola amore esiste è un po’ accaduta la stessa cosa. Anche qui ho girato in luoghi alquanto familiari, dietro casa mia: Colle Oppio, Piazza Vittorio. Mi occupo molto di quello che metto in scena.

SENTIERI SELVAGGI: In quale periodo avete girato il film?
MIMMO CALOPRESTI: Prevalentemente in autunno. Quando stava per cominciare a far freddo, con la paura delle giornate piovose. Roma è una città che io guardo un po’ “da straniero”, perché ci vivo da poco tempo, però è anche la città che ormai vedo tutti i giorni. Ci stanno tante cose che mi piacciono. Penso a Ostia…
SENTIERI SELVAGGI: Roma di La parola amore esiste come Torino di La seconda volta posseggono una sorta di “fisicità”. I personaggi sembrano inglobare l’ambiente: le mura, le stesse abitazioni (la casa dello psicologo, quella del maestro di violoncello). I luoghi però alla fine, pur nella loro intimità, sembrano diventare anche loro familiari…
MIMMO CALOPRESTI: Tendenzialmente cerco sempre di familiarizzare tutto quello che faccio. Cerco di lavorare sulle mie emozioni. Le scelte che faccio sono molto, molto personali. Voglio rappresentare le cose che vedo, che conosco, che mi piacciono. Cerco anche personaggi in linea di massima simpatici. Spero che non siano mai stereotipati. La prima scelta che faccio riguarda gli attori. Quella successiva riguarda i luoghi. E poi ciò che conta è il tipo di rapporto che instauro con tutti cercando di non entrare negli schemi della lavorazione classica di un film.

SENTIERI SELVAGGI: A un certo punto Angela rimprovera il giovane psichiatra di essere troppo sincero. Ci è tornato in mente ancora Troisi in Pensavo fosse amore…invece era un calesse che a un certo punto s’incazza con i pescatori che gli dicevano che la sua donna l’aveva tradito e gli dice: “Ma perché siete tutti così sinceri?”
MIMMO CALOPRESTI: Infatti il giovane psichiatra (Roberto De Francesco, ndc), alla fine dice alla protagonista che l’amore può fare anche male. Questa frase l’ho copiata da un gruppo nato dai C.S.I. dove c’è una ragazza che canta (sono gli Ustmamò, e lei è Mara Redeghieri, ndc) e c’è un brano della canzone che dice una frase del tipo “Andiamoci piano con l’affetto”

SENTIERI SELVAGGI: Anche se quella frase, messa in bocca a quel personaggio, gli ha tolto un po’ di emotività, forse perché è troppo sicuro di sé.
MIMMO CALOPRESTI: Sai, lì Roberto interpreta un ruolo istituzionale. Quando ognuno di noi affronta i propri sentimenti, rischia di cadere nelle proprie nevrosi. Se non affronta con attenzione e con serietà quello che sta succedendo, può correre anche dei rischi. E non sempre chi dovrebbe aiutarti ha la possibilità di farlo. Lo psicanalista è un personaggio che alla fine si arrende al fatto di non avere le cose giuste da dire. Oppure lo psichiatra è lo stesso. Non sempre certi incontri della tua vita ti possono servire per risolvere i tuoi problemi. Penso che l’aiuto possa venire solo da noi stessi. Ognuno di noi è solo in questo mondo.

È stato evidenziato il modo come hai rappresentato i ragazzi, in maniera non mediata, a differenza dei rapporti tra i personaggi più adulti in cui c’è di mezzo tra loro la riflessione, la paura. Tutti i ragazzi invece hanno dei rapporti estremamente diretti…
MIMMO CALOPRESTI: È infatti una scelta consapevole. Con i ragazzi ho in qualche modo idealizzato un modo di avere dei rapporti. Credo che per tutti noi ci sia la possibilità di avere dei rapporti semplici, diretti, immediati. Penso per esempio ai due giovani che prendono lezioni di violoncello e il modo diretto con cui gli si rivolge la ragazza, il concerto rock, ecc… Con i ragazzi giovani ti interviene una sorta di positività diretta. Con loro è più facile parlare, farmi dire cosa vogliono fare, come si deve fare.

La sensazione che dà il tuo film è quello di essere materico, gli attori non sembrano ‘utilizzati’ ma appaiono quasi come pezzi di pellicola…
MIMMO CALOPRESTI: Cerco di fargli fare tutto tranne che gli attori. Voglio che mostrino i loro personaggi “in sottrazione”, non li voglio far recitare.

Tu hai una co-sceneggiatrice e un co-sceneggiatore. Questo quanto aiuta?
MIMMO CALOPRESTI: Questo mi aiuta molto. Ho molto bisogno di segnali di diversa provenienza. Heidrun (Schleef, ndc) è una persona che immagina molto e dà molte idee. Francesco (Bruni, ndc) invece è più pratico, più deciso e riduce le cose. Io sto in mezzo a loro e cerco di prendere il meglio o il peggio (che, se trasformato, può tramutarsi in meglio). Io scrivo piccole cose su cui loro discutono. Secondo me Francesco è un grande sceneggiatore nel lavoro dei dialoghi, per la capacità di entrare nel quotidiano. La scrittura per me è importante. Anche se poi nel film si può cambiare. Quando i produttori francesi hanno visto il film, sono rimasti inizialmente perplessi perché, dopo aver letto la sceneggiatura, si aspettavano forse qual cos’altro, soprattutto nei toni. Pensavano che il film ripetesse la sceneggiatura.

Cos’è che è cambiato in particolare dalla sceneggiatura al film?
MIMMO CALOPRESTI: Il finale, per esempio, è stato costruito mentre giravo. L’ho scritto quattro volte. Sono partito da un finale in cui i due protagonisti non s’incontravano per niente. Le indicazioni scritte sulla scena finale sono state distribuite a tutti il giorno prima di girare. Bentivoglio, per esempio, era molto sorpreso all’inizio di questa scelta improvvisa. Non si ritrovava dentro le cose che doveva dire. Poi abbiamo parlato e alla fine l’ha amato moltissimo. Però con lui, delle varie ipotesi di finale, abbiamo parlato per mesi.
SENTIERI SELVAGGI: Ci sembra che quel finale sia estremamente coerente perché il film lavora quasi teoricamente sull’universo dei sentimenti. Nei momenti in cui sembra prendere una piega eccessiva, si torna nella quotidianità. Anche nel finale a un certo punto, mentre i due protagonisti parlano dei loro sentimenti, a lui gli si ferma la macchina e la sua preoccupazione principale è quella della benzina…
MIMMO CALOPRESTI: La scena dell’automobile è estremamente reale. Quel posto dove Bentivoglio va a recuperare la macchina rubata è lo stesso dove anche io sono andato a recuperare la mia macchina. Quel posto si trova sulla Casilina. Questo episodio mi è accaduto mentre stavo scrivendo il film e allora ho pensato di inserirlo. Infatti l’auto che utilizza Bentivoglio è la mia.

SENTIERI SELVAGGI: Perché questi accadimenti così concreti arrivano a interrompere un eccesso di teorizzazione?
MIMMO CALOPRESTI: Perché io ho paura delle teorie. Io non mi sento un intellettuale quando faccio cinema.

SENTIERI SELVAGGI: Questo Garrel non lo farebbe mai…
MIMMO CALOPRESTI: Garrel comunque ha l’umiltà quando fa cinema di raccontare qualcosa. Quando tu hai da raccontare una tua idea su qualcosa, lo fai sempre attraverso una storia. Per me, il fatto che il professore di violoncello rincontri Angela dopo aver recuperato la macchina che gli è stata rubata, mi affascina quanto il fatto che Angela sente lui attraverso il suono del violoncello che passa attraverso la radio. Per me c’è sempre un profondo equilibrio tra finzione e realtà. Noi dobbiamo stare in mezzo e, appunto, trovarci in equilibrio tra finzione e realtà.

SENTIERI SELVAGGI: Ci sono degli episodi dove finzione e realtà sembrano mescolarsi. Pensiamo al modo in cui lo psicanalista guarda il personaggio di Angela. Sembra, più che una seduta, un’intervista, con ripetuti primi piani. È come se all’interno di quelle inquadrature tendano a fondersi la finzione (le nevrosi di Angela) con la realtà (documentario sul suo personaggio)
MIMMO CALOPRESTI: Per un momento pensavo proprio a quello, proprio a un’intervista. Se tu vedi il girato, la maggior parte di quelle inquadrature sono dei primi piani, sia miei, sia di Valeria. L’idea che avevo era di mettere Angela di fronte alla realtà. Come psicanalista, come regista, come spettatore. Metto te di fronte la realtà, tu che sei ricca, sei sfaccendata, sei privilegiata, tu che ti puoi permettere di giocare sull’amore. Io penso che una certa sinistra potrà avere anche dei problemi per il modo come ho rappresentato queste persone privilegiate. Ma non ho questa paura.

SENTIERI SELVAGGI: Pensando a “La seconda volta”, a tutte le polemiche che ci sono state: Moretti, il terrorismo. Quello è un film da rivedere daccapo perché, secondo noi, non era un film ‘politico’, almeno non nel senso tradizionale del termine. Forse lo è di più questo…
MIMMO CALOPRESTI: C’è una continuità tra i due film più grossa di quella che si può inizialmente pensare. C’è un continuo domandarsi sul perché si incontrano le persone, su come s’incontrano le persone, che cosa succede quando s’incontrano. Questo m’interessa di più del discorso politico.

SENTIERI SELVAGGI: E invece ti sei ritrovato i brigatisti in conferenza…
MIMMO CALOPRESTI: Questo è un paese strano. Chiunque ha vissuto un’esperienza, pensa di essere l’unico ad avere il diritto di poterla raccontare. Ma perché? Io faccio un film anche per poter pensare. Non voglio assolutamente rinunciare all’idea che lo spettatore possa pensare quando vede un film. Sia in La seconda volta che ne La parola amore esiste c’è questo problema dell’incontro. La vita è fatta di incontri, di attese.

SENTIERI SELVAGGI: Infatti anche questo film, come l’altro, è giocato su attese, sul fatto che uno attende che l’altro faccia o non faccia, dica o non dica determinate cose. Così si creano tutta una serie di malintesi…
MIMMO CALOPRESTI: La mia formazione politica si è basata sulle lettere di Rosa Luxemburg. Non è che ora la politica non m’interessi. Penso sempre che ogni individuo ha bisogno di fare attenzione a se stesso prima che agli altri che gli stanno intorno. Per questo il cinema mi piace, perché permette di lavorare sugli individui. Il cinema mi permette di dire qualcosa che voglio dire. Nanni mi ha colpito molto quando in Bianca disse che lui non raccontava la storia di una generazioni ma di singoli individui, amici suoi. Quella frase, quell’idea la trovo geniale perché ti obbliga a stare lì con la vita di una persona.

SENTIERI SELVAGGI: Abbiamo l’impressione che scegli sempre lo stesso tipo di piano. È come se tu volessi mettere in scena tante soggettività, però nello stesso tempo mantenere un unico punto di vista…
MIMMO CALOPRESTI: Quando, per esempio, vedo due persone che parlano, cerco sempre di vederli, anche dal mio angolo di regista, sotto un punto di vista ideale per vedere e capire cosa succede realmente tra di loro. I piani a due mi piacciono moltissimo, sia quello stretto sia quello largo. Mi piace anche una certa distanza. Voglio vedere la faccia ma non voglio vedere il primissimo piano. C’è un momento che mi piace molto di questo film ed è quello del maestro di violoncello che si trova nell’inquadratura col suo allievo. Come sono disposti sulla scena, sembrano con quella sola immagine dire molte più cose di ciò che possono dire a parole. Mi interessa essenzialmente far vedere quello che sta succedendo.
SENTIERI SELVAGGI: C’è un piano a questo proposito rilevante. Si vede il ragazzo che suona il violoncello. Dietro la ragazza che è arrivata un po’ prima a lezione per cercare di incontrare il ragazzo. E dietro ancora il maestro di violoncello. Si crea così questa sorta di collegamento invisibile all’interno della stessa inquadratura, quasi di complicità nascosta.
MIMMO CALOPRESTI: Una cosa che non faccio è quella di far vedere la reazione. Non me ne frega niente. Qualche volta giro un piano-sequenza rischiando molto. Alla fine giro pochissimi piani. Se vai a vedere quello che monto giro un piano-sequenza e due piani molto veloci che mi danno possibilità d’incastro. Non giro tutto quello che si deve girare. Giro solo da un punto di vista preciso. Per me è sempre un problema di moralità quando giro. La moralità vuol dire giudizio. Ho la responsabilità di giudicare quello che sta succedendo quando giro.

SENTIERI SELVAGGI: Angela dice continuamente “Non mi giudicare” allo psicanalista…
MIMMO CALOPRESTI: È il gioco che faccio nel film. Lo spettatore alla fine poi deve essere responsabile del suo giudizio anche se io, nel corso del film, do comunque dei giudizi. Penso ad esempio a Fabrizio Bentivoglio e a tutti gli uomini del mio film ai quali ho tolto volutamente la seduzione. Non voglio sedurre nessuno. Voglio che la gente s’innamori, odi o si confronti con qualcosa che riconosce con sé. Molti attori delle volte sono frustrati quando lavorano con me proprio perché non gli permetto dei numeri d’attore.

SENTIERI SELVAGGI: Il tuo film fa pensare alla fase cosiddetta “intimista” di Rossellini, quella di Stromboli, Europa ‘51, La paura, Viaggio in Italia. Vennero bocciati dalla critica e invece erano dei film straordinari. Forse è lì, con quel Rossellini ‘massacrato’, che si è bloccata la possibilità di poter fare un cinema libero, che abbia qualcosa da raccontare…
MIMMO CALOPRESTI: C’è una scena in Europa ‘51 in cui la Bergman si reca nelle periferie. Lì c’è tutto. Entri in crisi. Rossellini lo raccontava molto prima di me il disagio della ricchezza. Viaggio in Italia era un film stratosferico nel modo di raccontare le persone, la crisi tra le persone e lui risolve questa crisi con l’oracolo.

SENTIERI SELVAGGI: Lì infatti Rossellini metteva in evidenza come Napoli sia l’unico paese che ha un miracolo fisso un giorno l’anno e lui non poteva non filmarlo..
MIMMO CALOPRESTI: Io non ho risposte su come le persone possano stare insieme. Rossellini invece le aveva perché aveva trovato il miracolo come soluzione. In Italia abbiamo un cinema così importante che però non ha continuità negli anni perché noi ci accontentiamo di ridere.

SENTIERI SELVAGGI: Oppure di fare della falsa coscienza sociale…
MIMMO CALOPRESTI: Ma quella è anche peggio. Il film di Nanni, Aprile, mi è piaciuto moltissimo quando fa delle domande serissime agli albanesi e poi dice: “Ma che cazzate di domande”

SENTIERI SELVAGGI: Tanto è vero che lui trova l’incontro con loro quando parla dell’attesa del figlio…
MIMMO CALOPRESTI: E poi c’è una sinistra che è troppo nichilista. La critica di sinistra sembra sempre avere bisogno del saggetto sociale per poter confondere. La politica sembra sempre essere lo strumento che si deve occupare dei grandi temi. I grandi temi poi alla fine quali sono?

SENTIERI SELVAGGI: Infatti i film di Rossellini più ‘politici’ erano questi, perché raccontavano i sentimenti umani. Invece lo accusarono di essere spiritualista cattolico, presuntuoso perché nel titolo parlava d’Europa…
MIMMO CALOPRESTI: Al cinema italiano gli manca forse questa presunzione. Il cinema, come strumento, è un privilegio. Allora ognuno di noi che fa cinema deve partire dal fatto di essere comunque un privilegiato e questa condizione bisogna accettarla. Rossellini per me è una specie di monumento, uno di quelli che ha fatto il grande cinema. Lui stesso aveva diretto Paisà dove nel momento più spettacolare del film lui è distante. In La vita è bella lo fa Benigni quando muore dietro l’angolo, non visto. Benigni lì è maestro di cinema, insegna veramente come si deve girare.

SENTIERI SELVAGGI: Tu che hai fatto anche tanto “documentario vero”, che te ne sembra del lavoro che ha fatto Moretti in Aprile?
MIMMO CALOPRESTI: Magnifico. Da quel punto di vista riesce a fare una cosa che solo i grandi si possono permettere, di mostrare l’inadeguatezza dello strumento. Lui riesce a fare un film che è un documentario vero e questa cosa qui riesce a farla diventare allo stesso tempo un film. Non riesco a capire come ce la faccia a realizzare questa impresa. Quello che amo di più in Aprile è proprio quello di conoscere i limiti del mezzo-cinema. Penso che questo film sia più piccolo e più fragile di altri suoi film ma anche migliore.

SENTIERI SELVAGGI: Una curiosità: le frasi dei bigliettini del tuo film da chi sono state prese?
MIMMO CALOPRESTI: Pavese, tranne quelle che manda lei che sono prese da delle poesie giapponesi.

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