Intervista su "La seconda volta"

da Cineforum, n.350, dicembre 1995

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CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

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Conversazione con Mimmo Calopresti

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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A cura di Federico Chiacchiari & Giona A. Nazzaro

G.A.N.: Nel tuo film vive una Torino spettrale, vuota, orfana quasi della centralità operaia…

M.C.: Anni fa ho realizzato un lavoro, Alla FIAT era così, dove c'è un personaggio, che lega le varie interviste, che attraversa solitario la città percuotendo un tamburo di latta e urlando slogan tipo "Il potere deve essere operaio" ecc… Era una situazione reale, ne avevo letto in un libro e mi affascinava l'idea di questo tipo che attraversava una città vuota. Era un'immagine molto forte e che mi incuriosiva soprattutto perché intorno a lui c'erano le manifestazioni, la gente che si muoveva ai margini dei cortei, mentre lui era solo e si faceva deridere. Quando girava, in modo da non essere notato, mi rendevo conto che nessuno gli faceva caso per strada. Questo tipo attraversava i portici con il suo tamburo di latta e la gente intorno non gli prestava la minima attenzione. L'indifferenza assoluta. Da notare che mentre scrivevamo la sceneggiatura le critiche più frequenti che mi venivano rivolte erano del tipo: "Ma a chi frega oggi del terrorismo?…" Questa domanda me la ponevo spesso durante la lavorazione del film e la storia di Lisa e di Alberto, così forte e particolare la proiettavo quasi inconsapevolmente contro quest'indifferenza generalizzata. I due prendono l'autobus, camminano molto, frequentano bar e ristoranti sempre però nell'indifferenza degli altri. Quella che si vede nel film è una Torino abbastanza domestica in realtà, stranamente domestica. I giardini si trovano nei pressi dove abitavo prima, i portici, i bar, le cose insomma che conosco nella loro quotidianità. Per me comunque in questa Torino era fondamentale metterci la fabbrica e le sue trasformazioni degli ultimi anni; queste hanno modificato qualcosa nella città. Oggi non so bene quali siano i risultati di queste trasformazioni, so solo che queste mi sono ancora incomprensibili e conosco dei dati: ci sono più disoccupati di prima. Volevo fare vedere la FIAT; la FIAT c'è, ci sono le macchine, i robot, però non mi volevo chiudere. Mi interessavano solo Lisa ed Alberto. Della gente intorno a loro m'importava pochissimo. Infatti i due a tratti quasi galleggiano staccati come sono dall'ambiente circostante. Cinematograficamente mi hanno sempre appassionato quei film dove ci sono due persone che attraversano una città. Uno dei film preferiti in assoluto è A bout de souffle di Godard perché ci sono questi due che continuano ad incontrarsi e attraversano tutta Parigi, mentre di tutto quello che c'è intorno non ti importa nulla.

F.C.:…i protagonisti girano anche troppo rispetto alla storia, sembra quasi che quello del movimento sia più un bisogno tuo che dei personaggi…

M.C.: Mi piaceva l'idea del fuori rispetto a lei che era stata in carcere; mi piaceva farle usare i mezzi di trasporto, che per qualcuno che è stato dentro per tanti anni…

F.C.:…però nel film è assente questa fascinazione dell'esterno; l'esterno è vissuto nella sua quotidianità, non si avverte mai la discontinuità fuori-dentro…

M.C.: Infatti non ho lavorato su questa contrapposizione. Ero solo interessato a far vedere come Lisa reagisce nei confronti dell'esterno, ma senza enfatizzare la contrapposizione con il carcere. Torino è una città cui sono molto legato, per esempio il giardino dove parlano Alberto e la sorella è un posto che amo molto; ma soprattutto Torino è una città che mi piace in virtù delle sue contraddizioni. Torino è una città dura, è la città della fabbrica, la città delle cose che mi piacciono meno della vita. Ciò nonostante amo questo contrasto…
F.C.: Nella scelta di Torino ha influito il fatto che si trattava del tuo primo lungometraggio? Mi è sembrato infatti che tu abbia tentato consapevolmente di circondarti di luoghi familiari, così come la storia del film deve moltissimo alle tue esperienze. Tutto questo mi sembra un sintomo di assoluta modestia che riesci a rendere anche come cifra stilistica…

M.C.: Io penso alla semplicità come valore e spero che nel film si veda. Per me in questo momento si tratta di un valore importante, anche dal punto di vista dello stile cinematografico…per arrivare al lungometraggio sono dovuto passare attraverso tante complicazioni…

G.A.N.:…un lungometraggio molto breve…

M.C.: …breve, breve, si tratta anche di fare i conti con le proprie capacità. Come dire, mi sembrava che far vedere semplicemente fosse più importante che elaborare stili complicati…E quando si trattava di girare mi sono trovato di fronte al medesimo problema. Mi sembrava che la soluzione migliore fosse sempre la più semplice. Ho una sola presunzione in questo senso e che il film funziona anche rispetto al pubblico. Questa alla fine è la sola cosa che conta. Non mi sono mai detto “faccio questo film per la critica”, volevo fare un film per il pubblico ed è la sola cosa sulla quale siamo stati tutti d'accordo sin dall'inizio.

G.A.N.: Devo confessarti che il tuo film mi ha ricordato moltissimo Breve Incontro di David Lean, ammetto che si tratta di una devianza cinefila…

M.C.:….non l'ho mai visto…

G.A.N.: E' la storia di due persone che si incontrano e che non riescono a superare la determinazione sociale dei loro ruoli. Il tuo film è la storia di un breve incontro che non ha nemmeno il tempo di iniziare che già è terminato. Sembra che la vita di Lisa e di Alberto sia costantemente sul punto di cambiare, ma alla fine si ritrovano entrambi al punto di partenza…

M.C.: Giuro che non conosco il film… Al cinema si possono raccontare tante storie, ma quella di due persone che si incontrano continua ad essere per me l'avventura più emozionante. Il problema è riuscire a raccontarla, a farla esistere. Nel film ho cercato di raccontare proprio questo prima ancora che occuparmi di terrorismo e analisi varie. Fare incontrare due persone per me era una cosa molto importante; se poi queste due persone hanno qualcosa di molto forte che li lega allora si può fare un film…

F.C.: Volevo sapere quanto il film è stato influenzato non solo dal Moretti regista, ma soprattutto dal Moretti attore che si sta rivelando sempre di più una presenza autonoma all'interno del panorama del cinema italiano.

M.C.: Essendo Nanni il produttore ha avuto la possibilità di esercitare tutti i diritti che un produttore può far valere su di un film e io li conosco perfettamente e so come possono pesare; ma ha svolto anche, sino in fondo, i suoi doveri di produttore. Quindi produttore Nanni lo è stato dall'inizio alla fine. La libertà che mi ha concesso Nanni non è stata tanto quella di girare una scena in un modo piuttosto che in un altro… Certo a volte mi chiedeva perché facevo una cosa invece che un'altra, ma la libertà che mi ha dato Nanni è la sua stessa libertà nei confronti dei meccanismi e del linguaggio cinematografico. Nanni fa un cinema libero e questa è una cosa che lui mi ha trasmesso pur continuando a rispettare la sceneggiatura, il pubblico, il momento della ripresa ecc… Mi ha insegnato a muovermi dentro questi momenti con grande libertà che non è tanto fare quello che ti piace e basta, ma la tua capacità di dire le cose che hai da dire rispetto a questi. Nanni in quanto autore sa benissimo a chi appartiene il film e chi lo deve gestire e di conseguenza in ogni momento delle riprese mi ha permesso di prendere tutte le mie decisioni. Ha detto ovviamente la sua quando non era d'accordo, ma questa è anche la sua onestà. Abbiamo avuto discussioni su decine di questioni, ma alla fine contava solo la loro soluzione. Io ho accettato il confronto con lui con tranquillità, abbiamo anche litigato ma con grande divertimento, perché lui è una persona estremamente divertente con un grande senso dell'umorismo.

F.C.: Hai degli aneddoti riguardo ad alcune vostre divergenze?

M.C.: Mah, così su due piedi… posso dirti che non era molto entusiasta del mio continuo ‘carrellare’ e mi chiedeva in continuazione: "Ma a che serve il carrello in questa scena?" Io lo convincevo della necessità di carrellare e lui il giorno dopo si presentava dicendo: "Un carrello al giorno leva il medico di torno…"

F.C.: E sul linguaggio di Alberto come hai lavorato con Nanni?

M.C.: Nanni non possiede la classica formazione dell'attore, quindi è più difficile fare con lui il lavoro di preparazione che ho fatto invece con Valeria che ha una formazione completamente diversa…

F.C.:…teatrale?

M.C.: Non solo, ha fatto anche cinema, televisione. Valeria è una che crede molto al lavoro di attrice. Nanni non è un attore, non so cosa sia né se creerà qualcosa di suo in futuro. Con lui la costruzione del personaggio è stata quotidiana – che è un processo anche molto divertente ad essere sinceri – perché ha delle illuminazioni assurde, irreali che ovviamente non abbiamo utilizzato. Nanni è un attore assolutamente atipico ed è la sua forza. Ecco: una forma di libertà è stata avere Nanni che non è un attore classico.

G.A.N.: Infatti Moretti è utilizzato in modo molto poco ‘morettiano’…

M.C.: E' la scelta di fondo del film… Volevo evitare che il pubblico identificasse troppo Nanni e si dimenticasse di Alberto.

F.C.: Hai idea di come "sbaglierai" il tuo prossimo film…?

M.C.: Qualche idea c'è (ride)… Scegliere di fare un film con la Sacher è un lusso e dal punto di vista produttivo significa essere il regista più fortunato del mondo. Il problema è che per me lavorare con la Sacher ha significato continuità con le cose che facevo prima. Insomma vorrei "sbagliare" il mio secondo film continuando a fare le cose che ho sempre fatto.

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