Io, Arlecchino, di Matteo Bini e Giorgio Pasotti

Opera emblematica dell’attuale sistema di finanziamento, sostentamento e realizzazione di un film in Italia, meriterebbe un’analisi attenta innanzitutto delle proprie strategie produttive

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Io, Arlecchino è un film che cerca di seguire 4-5 linee narrative che fanno un po’ di fatica a tenersi tutte insieme.
Quella più sentita è probabilmente quella blandamente autobiografica, legata alle peripezie hongkonghesi d’inizio carriera di Giorgio Pasotti, da queste parti sempre tenute a memoria con ammirazione: il suo protagonista Paolo riscopre le proprie capacità fisiche e atletiche in parallelo alla propria depurazione dai segni dei riflettori del mondo dell’italico spettacolo, e così il suo Arlecchino durante le prove della messinscena mascherata timidamente accenna salti sulle sedie e piccole piroette.
Sarebbe stato fantastico se a Pasotti fosse venuto in mente di dirigere un film di arti marziali con le maschere della Commedia dell’Arte (azzardiamo: il suo Arlecchino come lo Scaramouche de L’armata dei sonnambuli…), ma con grande sincerità e un pizzico di tristezza, lo spettacolo che i personaggi del film tentano di portare a teatro alla fine non si farà: è, effettivamente, lo snodo più coraggioso dello script di Matteo Bini e Maurice Caldera “da un’idea di Giorgio Pasotti” (pronti con l’hashtag?), che nega al film la prevedibile catarsi della piccola vittoria della cultura delle platee piene in provincia assiepate ad assistere alla tradizione tricolore che si preserva.
Ovviamente Herlitzka permette subito alla filiera corta della pratica teatrale biologica a chilometro zero di funzionare, ma nessuno sembra credere davvero all’aspetto del richiamo alla Commedia dell’Arte se non come gancio per radicarsi sul territorio e insieme puntare all’esportazione.

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Da questo punto di vista Io, Arlecchino è a tutti gli effetti un’opera emblematica dell’attuale sistema di finanziamento, sostentamento e realizzazione di un film in Italia, e visto così è un titolo che meriterebbe un’analisi attenta innanzitutto delle proprie strategie produttive, prima che del prodotto in sé: la compagnia di guitti con gloriosi caratteristi “forestieri” a supporto (Lunetta Savino, Giovanni Ferreri…) alla riscoperta delle strade sterrate dei panorami regionali da attraversare in pulmino sembra di questi tempi il veicolo più funzionale per un’operazione del genere.
Restano ovviamente le traiettorie dei sentimenti che il gruppo dei protagonisti incrocia al suo interno, dalla linea padre-figlio a quella dell’innamoramento Pasotti-Bilello: va detto che i due registi risolvono tutto per ellissi e passaggi veloci e volanti, senza caricare il film di ulteriori elementi, dato lo spazio che viene già riservato alla controparte grottesca di città e ai retroscena unti dei corridoi degli studi televisivi.
E’ questa la sezione più pasticciata di tutto il pacchetto, e l’idea di portare tutti i nodi a sciogliersi proprio al cospetto di una diretta tv di prima serata più che puntare al gesto situazionista di rottura porta con sé invece il dubbio di un latente fraintendimento a monte di intenti e di riferimenti.

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