"Io non ci sono". Il cinema dell' esclusione di Todd Haynes

I'm not hereIl suo ultimo film, I’m Not There: Suppositions on a Film Concerning Dylan, sarà presentato in concorso a Venezia in questi giorni. Nella sua opera c’è ancora al centro la musica, ma anche la figura dell’artista. Un film su Bob Dylan senza Bob Dylan, ultimo lungometraggio di un autore del quale si ripercorre la carriera dagli esordiin cui ritornano costantemente alcune tematiche come quelle della malattia, della devianza, dell’isolamento, dell’alienazione

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------
I'm not hereLei è una mistica con il cuore triste,
e non le importa e piange e va avanti,
e  io vorrei essere al suo fianco,
ma non ci sono.
Sono andato via
Bob Dylan “I’m not there” (1956)

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

I’m Not There: Suppositions on a Film Concerning Dylan è il titolo dell’ultimo film di Todd Haynes, in concorso alla 64 Mostra del Cinema di Venezia.
Si tratta di un ritratto poliedrico e sfaccettato della vita e delle opere di Bob Dylan, raccontate dal controverso autore californiano, attraverso l’alternarsi di sei attori diversi, ognuno dei quali incarna un momento della storia di Dylan e, soprattutto, un aspetto della sua complessa personalità.
Christian Bale, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger, Ben Whishaw e Cate Blanchett portano avanti segmenti incastrati di vite apparentemente non connesse tra loro (nessuno dei personaggi ha il nome di Dylan), ognuna con il suo stile narrativo e visivo. Haynes alterna il bianco e nero al colore così come i vari attori e i loro ruoli e nomi in un percorso in cui la musica ( la colonna sonora conta sulla presenza di artisti con i quali già in passato Haynes aveva collaborato, come i Sonic Youth e Eddie Vedder) è l’ elemento che unifica lo spazio e il tempo.
La canzone che dà il titolo al film è un pezzo presente su un bootleg di Dylan. Registrata in modo rudimentale e alquanto approssimativo ha un fascino fragile ed enigmatico, che la rende in qualche modo straziante. Come nota Haynes “…in alcuni versi non dice neanche parole coerenti tra loro. E questo aggiunge un tragico mistero a tutto il pezzo”
In modo simile Haynes costruisce il suo film, il suo “omaggio” al menestrello americano. Le facce e le voci degli attori si sovrappongono e si sostituiscono in un flusso narrativo apparentemente incoerente, in realtà misteriosamente razionale. Cate Blanchett è  “Jude”, giovane, androgina rock-star, in bianco e nero, nel contestato momento di passaggio dal folk puro alla contaminazione del rock e delle chitarre elettriche.
La carriera
Nato a Los Angeles, California, il 2 gennaio 1961, Todd Haynes si laurea alla Brown University in Arte e Semiotica. Nel 1985 si trasferisce a New York, dove comincia a collaborare con diverse produzioni indipendenti e nello stesso anno gira il suo primo film, Assassins: A Film Concerning Rimbaud. Sebbene si tratti di un’opera ancora grezza, non priva di ingenuità, già sono presenti e ben delineate le caratteristiche stilistiche e tematiche della produzione di Haynes. Il tema della devianza, dell’esclusione imposta e al tempo stesso cercata, e della solitudine che ne consegue, sono centrali nella vicenda dell’amore violento tra Rimbaud e Paul Verlaine. Altro tratto importante é il voluto e destabilizzante anacronismo; in un bar dove si fuma l’assenzio si sente una canzone di Iggy Pop, Rimbaud riempie le mura della città di graffiti con lo spray. Lo spazio e il tempo di Haynes rifiutano spesso le convenzioni del realismo. Si tratta, appunto, di uno spazio e di un tempo dell’esclusione.
Nel 1987 Haynes gira Superstar: The Karen Carpenter Story. E’ la storia della famosa cantante pop americana, arrivata al successo giovanissima insieme al fratello, e morta precocemente, a 33 anni, di anoressia cronica. Il film ha per “attori”  una serie di bambole, di Barbie, che incarnano Karen e  gli altri protagonisti della sua vicenda. Attraverso l’uso estraniante delle popolari bambole, Haynes ricostruisce la vita della Carpenter, esaminando il divario tra l’ immagine pubblica e la sua dolorosa realtà privata. Idea folgorante e perfetta: l’uso delle Barbie è un chiaro riferimento all’anoressia, data l’innegabile presenza della Barbie-modello di bellezza nella vita di tutte le ragazze occidentali. In più l’uso di pupazzi invece che di attori in carne ed ossa rimanda inquietantemente all’idea di inanimato, di malattia e morte. Purtroppo il film può essere visto con molte difficoltà, poiché all’epoca la famiglia Carpenter nePoison bloccò la distribuzione.
Ma è con il film successivo che Haynes delinea in modo definitivo il suo stile e la sua coerenza “ideologica”, e al tempo stesso diventa uno dei registi più importanti del cinema indipendente americano.  
Con Poison, nel 1991, Todd Haynes vince il Grand Jury Prize al Sundance Festival, provocando una serie di inaspettate polemiche. Realizzato in parte con i fondi della NEA, National Endowment for the Arts, il film viene attaccato duramente dall’ American Family Association, con l’ accusa di contenere scene d’ amore omosessuale troppo esplicite, al limite della pornografia. Il fatto che il film fosse stato finanziato dalla NEA fece infuriare ancora di più il reverendo Donald Wildmon, portavoce ultraconservatore dell’ AFA. In realtà il film, un trittico in tre capitoli; Hero, Homo e Horror, è ben lontano da qualsiasi contenuto pornografico, come dichiarò il difensore della NEA, John Frohnmayer  “…il tema centrale è quello dell’esclusione e della violenza, che generano altra violenza e distruzione.”
Le tre storie, liberamente ispirate alle opere di Genet, lontane tra loro cronologicamente, ruotano intorno al tema della malattia e della morte, così come è chiaro dalla prima scena del film, introdotta da una dichiarazione provocatoria:
“L’intero mondo sta morendo di terrore”. La devianza e il dolore e l’isolamento che comporta; sono questi i temi di Poison e di tutta la produzione di Haynes.
Come lui stesso ha dichiarato più di una volta “… nei miei film quasi tutto ha a che fare con la malattia”. Che si tratti dell’ Aids, dell’ anoressia o di altre forme di malattia interiore, come l’ emarginazione e la violenza, da Poison in poi il tema del disagio e dell’ alienazione in tutte le sue forme diventa centrale nella produzione del regista.
Il riferimento all’omosessualità e all’Aids è più che accennato. E’ evidente in Homo, storia d’amore e violenza tra due carcerati, sui quali agisce il ricordo delle violenze che hanno loro stessi ricevuto da bambini in riformatori e altri luoghi di “devianza” e “correzione”. E’ questo, dei tre, il segmento più controverso, e anche quello più contrastato. Eppure nella storia dell’ossessione del prigioniero John Broom verso il suo compagno Jack Bolton, da lui conosciuto anni prima in riformatorio, Haynes si concentra, anche visivamente, molto più sulla brutalità mentale più che su quella sessuale.
La malattia e l’isolamento sono ironicamente malcelati in Horror, una sorta di omaggio compiaciuto ai film sci-fi degli anni ’50 e ’60, in cui uno scienziato,il dottor Thomas Graves, nel bizzarro tentativo di isolare l’elisir dell’impulso sessuale, lo beve per sbaglio, davanti alla collega che è segretamente innamorata di lui,“avvelenandosi” e diventando una creatura mostruosa e un assassino seriale. La donna cerca di aiutarlo, fino alla morte. Sebbene Haynes non menzioni mai l’ Aids, l’ allusione al virus letale è più che evidente, e i sogni ingenui della dottoressa Nancy Olsen devono arrendersi davanti all’ evidenza che l’amore è come la morte.
Il terzo frammento, Hero, è la storia di un bambino che uccide il suo patrigno violento, per impedirgli di picchiare ancora la madre e, dopo l’omicidio, si suicida gettandosi da una finestra.
SafePoison è un trittico fatto di episodi divergenti, ognuno dei quali è immerso, a suo modo, in quel mondo “che muore di terrore”. Haynes usa la sovrapposizione stilistica, che diverrà un’ altra delle sue caratteristiche. Horror, parodia affettuosa dei film in bianco e nero, è pieno di contrasti esagerati e ombre scure. Homo ricorda a tratti i melodrammi di Douglas Sirk e Nicholas Ray. “Hero” è girato come un falso documentario, con riprese televisive alternate ai flashback.
Safe, del 1995 è ancora una volta un film sul “veleno” e sull’ alienazione, ed è, probabilmente, il film più complesso e riuscito di Haynes. Girato in una Los Angeles che è un “non-luogo”, con quartieri residenziali pieni di ville asettiche, palestre e locali climatizzati; un posto che non esiste, per dirla con le parole di Haynes “…potrebbe essere un aeroporto, un posto dove non si tocca mai la “terra” vera. Ti ritrovi in questo mondo moquettato, iperclimatizzato, dove le persone non fanno altro che scivolare via.”
Solo apparentemente convenzionale, Safe usa le convenzioni classiche per smontarle e frammentarle, lasciando lo spettatore incredibilmente privo di risposte. Ed in questo è il più sovversivo dei suoi film.
Ancora una volta la centralità  della malattia; il film è ambientato nel 1987,e i riferimenti all’ Aids sono molteplici, anche se molto sottili. Ma l’“Aids” o “malattia ambientale” di Carol non è ovviamente quello reale; è qualcosa di sottile, e per questo irrecuperabile, è un disagio inconscio, che parte dall’ esclusione per arrivare ad un’ altra forma di esclusione. Dalla fredda, grottesca villa in stile Tudor alla subdola, inquietante comune new-age in mezzo al deserto.  Ancora una volta una donna, come Karen Carpenter, intrappolata in una malattia e in un panico incurabile.
L’ intero film gioca poi con le convenzioni dell’horror-movie: l’inizio con il lungo travelling shot, la musica di sottofondo. E soprattutto: la protagonista sa che il “mostro” è libero,che la tragedia sta per arrivare. Ma nessuno le crede.
“E’ spaventoso per me pensare a quanto io mi identifichi in Carol White”. Haynes costruisce il personaggio insieme a  Julianne Moore; alternando identificazione e distanza, inafferrabilità e soggettività. Questa tensione, presente nella costruzione di quasi tutti i personaggi di Haynes, è  portata all’estremo, anche grazie all’ uso del grandangolo e a una messa in scena iperrealistica che rimanda all’ isteria latente dei melodrammi di Sirk. Mai come in Safe questa tensione riesce ad esprimere in modo perfetto l’alienazione, dando al film una straordinaria, destabilizzante  profondità.
Con Velvet Goldmine del 1998 riprende in parte lo stile anacronistico e anarchico di Assassins e lo fonde in un gioco di citazioni cinematografiche e letterarie. La storia di Brian Slade e della sua finta morte, ispirata alla vicenda di David Bowie e del suo alter ego Ziggy Stardust, si alterna a quella del giornalista Arthur Stuart incaricato, nel 1984 (citazione orwelliana) di scoprire la verità sulla morte di Slade. La scena dell’incontro con la moglie di Slade è un chiaro omaggio a Quarto potere. La presenza iniziale di Oscar Wilde come forza”aliena”che anticipa le idee eccessive e marginali del glam-rock, è ancora una volta una citazione scherzosa dei film sci-fi. La pietra verde, emblema di questo artista “dall’altro mondo”, che sopravvive a tutto il film, richiama in qualche modo la mitologia infantile de Il mago di Oz.
In Velvet Goldmine Haynes riflette sull’arte e sulla figura di chi crea. Da dove vengono quelli che creano, e da dove viene il loro “dono”? Questa sembra essere la domanda che percorre il film. Domanda che non trova, e non vuole trovare risposte concrete, ma solo un percorso visivo ed emotivo, un pastiche postmoderno, in cui l’unica certezza è l’ironica convinzione che chi crea non muore mai, nonostante il succedersi dei tempi e delle mode.
Ancora una volta Julianne Moore protagonista, in Lontano dal Paradiso, del 2002 di una storia di esclusione e alienazione. Omaggio dichiarato a Douglas Sirk, il film rielabora le strutture melodrammatiche, i colori forti,  gli interni eccessivi, la sovrabbondanza di oggetti, l’ isteria latente, per costruire una storia in cui tre forme di isolamento e diversità, quella sessuale, quella sociale e quella razziale, esplodono a contatto l’ una con l’ altra. Haynes dà voce alla trasgressione malcelata che percorreva il melodramma degli anni’50, mettendone in scena il rimosso.
La musica è un’espressione importante per Haynes, grande appassionato di rock: è del 2004 Corporate Ghost, raccolta di video dei Sonic Youth, a cui partecipa con la regia di Disappearer 
E ancora la musica è protagonista di I’m Not There. Supposizioni per un film su Bob Dylan. “Senza” Bob Dylan. Lui non c’è. Il grande “escluso” è proprio il protagonista del film, in un gioco di paradossi che lo porta ad attraversare la storia in modo anarchico, sotto le spoglie di cinque attori e un’attrice, in un caleidoscopio in cui, ancora una volta l’inafferrabilità dello spazio e del tempo costituiscono la vera coerenza del discorso narrativo.
 
Articoli correlati:
 
Link esterni:
 
--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array

    Un commento

    • bel pezzo! qualcuno di voi saprebbe dirmi dove posso trovare il primo corto di Haynes, "Assassins: a film concerning Rimbaud"? grazie mille