Io sono un campione, di Lindsay Anderson

È uno dei manifesti del Free Cinema. Indaga con crudo realismo la condizione critica della working-class inglese, inquadrata nel volto di un angry young man sempre più alienato e vulnerabile. Su Prime

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Tra i movimenti espressivi che hanno rivoluzionato il linguaggio cinematografico a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 il Free Cinema è forse quello più eminentemente libero proprio perché lontano dal formalismo audiovisivo dei suoi omologhi internazionali. Nei film della “nuova ondata inglese” non è la sperimentazione iconico-sonora a porsi come matrice del rinnovamento – come accadeva contemporaneamente nella Nouvelle Vague o nella Nūberu Bāgu giapponese – ma un senso realmente nuovo di “percepire” l’individuo e di inserirlo in una rete di relazioni socio-politiche ben definite. È un cinema free perché le sue asserzioni, visioni e concezioni del mondo sono personali e libere. Un processo che in Io sono un campione è segno delle sue istanze comunicative, tale da infondere significato tanto alle sue rappresentazioni formali, quanto alla natura iconografica dei suoi soggetti.

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Come tutti gli “eroi” della New Wave inglese, anche il protagonista di Io sono un campione è declinato nei tratti del tragico angry young man di periferia. È inquadrato cioè secondo quella direttrice iconografico-esistenziale, che come in un mosaico di legami, porta il singolo soggetto ad identificarsi con le parabole narrative dei suoi corrispettivi cinematografici. In una continuità di esperienze e situazioni che hanno come cornice di riferimento un unico spazio fisico, catalizzatore per l’espressività dei singoli racconti: l’Inghilterra industriale. E analogamente ai suoi predecessori/successori, Io sono un campione parte proprio da qui, per adeguarne le soffocanti realtà scenografiche al percorso drammatico del suo vulnerabile protagonista.

Frank Machin (Richard Harris) è infatti conseguenza e prodotto del suo ambiente. È un uomo brusco, duro, la cui rabbia interiore è manifesto di una nuova generazione che rifiuta di accettare la subalternità di condizione della working-class moderna. Il talento sportivo è l’unica arma a sua disposizione per combattere il senso (collettivo) di alienazione, e conquistarsi nel contempo una posizione sociale più dignitosa. Ma una volta diventato un giocatore di rugby professionista – e quindi “superato” lo stigma del subalterno – deve comunque interfacciarsi con le realtà di un ambiente (dis)umano, che porta l’individuo (con le sue relazioni) a sfaldarsi in mille pezzi, senza alcuna possibilità di redenzione/assoluzione. Un andamento che concretizza il debito culturale tra Io sono un campione e il suo immaginario New Wave, e che Lindsay Anderson articola qui secondo una (apparente) dialettica di consequenzialità/discontinuità. Se i continui trionfi di Frank sul campo da gioco cozzano (in superficie) con le difficoltà esistenziali dei suoi equivalenti filmici, le “sconfitte” extra-campo ne declinano l’immagine verso una stessa configurazione drammatica, che ha nella frustrazione e nel degrado morale il suo zenit caratteriale. L’aggressività di Frank nello sport (e nelle mura domestiche) è così il frutto delle disuguaglianze sociali a cui sono continuamente soggetti i giovani inglesi di periferia. È il prodotto cioè di quello stesso ambiente industriale che porta Arthur/Albert Finney in Sabato sera, domenica mattina (1960) sul cammino della perdizione sessuale, Jimmy/Richard Burton ne I giovani arrabbiati (1958) alla violenza psico-fisica, o Billy/Tom Courtenay in Billy il bugiardo (1963) alla fuga dall’inezia quotidiana attraverso l’idealizzazione allucinatoria della realtà.

Tra il ricordo di eventi traumatici e la ricerca continua della salvazione, Io sono un campione racconta allora un’Inghilterra sporca, cruda, ma sempre vera, che nei suoi orizzonti sociali condanna la working-class allo squallore quotidiano, e nelle sue pieghe liberiste concede loro dei momentanei scorci di vitalità. Secondo un approccio profondamente realistico, che Lindsay Anderson enfatizza grazie a un contrasto dialettico di onirismo e spirito fenomenico. I processi di (ri)memorazione del primo atto, in cui Frank ricorda gli antefatti del racconto mentre è anestetizzato, diventano qui i termini di riferimento di uno scenario socio-culturale, che fa degli spazi mentali (e successivamente, di quelli quotidiani) il terreno di manifestazione dei suoi sintomi più alienanti. Il segno quindi di un approccio critico, che per funzionare cuce tutti i suoi esiti e sfumature espressive sul corpo, sul volto e sul magnetismo istrionico del suo attore. In vista cioè di una performance filmica devastante, in cui Harris sublima la rabbia del personaggio sull’altare di una vulnerabilità interiorizzata, facendo così viaggiare sui binari della sottrazione un’interpretazione memorabile, che (ri)definisce nell’immaginario la figura del “giovane inglese arrabbiato”.

Titolo originale: This Sporting Life
Regia: Lindsay Anderson
Interpreti: Richard Harris, Rachel Roberts, Alan Badel, William Hartnell, Colin Blakely, Vanda Godsell, Jack Watson, Arthur Lowe
Distribuzione: Amazon Prime Video
Durata: 134′
Origine: Inghilterra, 1963

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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