Jackie, di Pablo Larraín
Lavoro lucidissimo che rimescola e fa impazzire la cronaca storica e sancisce la definitiva impossibilità del biopic e manda in cortocircuito l’arco temporale della narrazione
Perché una storia sia vera, occorre scriverne? Non c’è più bisogno di scriverla, c’è la televisione, risponde “il giornalista” Billy Crudup all’inizio della sua intervista duello (Frost/Nixon?) con Jacqueline Kennedy. Rappresentazione o narrazione che sia, resta sempre l’idea che la verità vera sia sempre un’altra cosa, posta in un punto irraggiungibile, e molto probabilmente irrilevante. Lo stato delle cose non esiste, è sempre il frutto di un sopralluogo e di una perizia, verbale, visiva… La differenza, oggi, sta nel grado di spettacolo richiesto perché le cose possano uscire dall’anonimato e quindi dall’inesistenza.
Chi è stato James Garfield? E chi si ricorda di William McKinley? Nessuno lo sa. Però tutti sanno chi era Lincoln, cosa ha fatto, quali sono i momenti fondamentali del suo mandato, la vittoria della guerra civile e l’abolizione della schiavitù. Perché? Cosa c’è di diverso tra tre presidenti assassinati mentre erano ancora in carica? È solo questione di meriti effettivi, della portata delle loro politiche e decisioni? O c’è anche dell’altro? Forse, in questi casi, è qualcosa che riguarda il modo in cui è stato celebrato il lutto della nazione, il racconto della morte di un uomo che diventa un’altra prospettiva sulla sua vita, sui suoi pensieri, parole, opere e omissioni. È il modo in cui il potere si rappresenta, in cui tutto si rappresenta, il punto, come intuisce con geniale lucidità Jackie. Che immagine vogliamo dare? Era la stessa domanda che era alla base di No: il dominio della narrazione e della rappresentazione sul campo della verità. I detti più dei fatti, le immagini più delle cose. Perciò la prova di forza che la first lady, ormai spodestata, ingaggia con i consiglieri, i responsabili, con tutto l’apparato preoccupato delle ragioni della sicurezza, è determinante. Dare a Kennedy lo stesso funerale di Lincoln, fargli percorrere la stessa strada con il corteo, i cavalli, la processione funebre e il tributo live della commozione pubblica, significa dar vita a una cerimonia di santificazione politica, che svincola l’uomo dal peso del giudizio storico, almeno agli occhi dei più. Che, poi, sono quelli che formano la materia del sistema. Se Bobby si preoccupa, ancora, del fallimento materiale, di non aver avuto il tempo di lasciare un segno effettivo, Jackie è già oltre. Ragiona su cos’è un segno. Forse perché si è dovuta preoccupare, sin da subito, all’immagine di sé, al modo in cui doversi rapportare agli sguardi e, da lì, alle opinioni.
Ma non è solo una questione individuale in ballo. Ed ecco qui una delle innumerevoli complicazioni che Pablo Larraín innesta nel disegno di Jackie, tanto da renderlo un oggetto di disarmante densità. La costruzione leggendaria della storia non riguarda solo il personaggio di Kennedy e, automaticamente, della consorte che ne ha eretto l’altare. Non è solo un problema di eredità. Riguarda più in generale una nazione e i suoi riferimenti. Come suggerisce l’amico Pietro, quell’ossessione di Jackie per la White House, per la casa rimessa a nuovo attraverso i pezzi del passato, con il recupero compulsivo dei mobili appartenuti ai vecchi presidenti e poi venduti nel corso dei decenni, non è più l’affare intimo di un focolare domestico. Gioca nel senso di una tradizione, serve a tracciare un percorso identitario attraverso l’aggancio ad altre figure, le persone leggendarie che hanno attraversato quelle stanze nel corso dei secoli. Ancora una volta, per Larraín, il potere è qualcosa che trascende gli individui che lo incarnano, via via, nel corso del tempo. È un’entità che parla un proprio linguaggio, che trasfigura la realtà in un sistema di simboli, figure e codici. E che dà forma quindi al proprio mondo e alla propria storia.
Ma se tutto è pubblico, dov’è il privato? Pienamente calata in questa autorappresentazione, chi è Jackie? C’è la donna di Larraín che gioca con il suo intervistatore come il gatto con il tempo… “non ha mica intenzione di pubblicare queste cose” – e allora perché dirle – Ma Jacqueline Kennedy chi è? Ecco l’altra questione, quella intima, personale. Seppure Larraín prova a coglierne il dramma in quei giorni immediatamente successivi all’attentato di Dallas, sebbene provi a immaginarne il cuore spezzato, la verità dei suoi reali sentimenti ed emozioni non può che sfuggire. Jackie è come un personaggio pirandelliano. Non esiste, se non nella misura in cui si offre agli sguardi e nei modi in cui può essere raccontata. Sono diventata first lady, altre donne hanno rinunciato a tutto per molto meno. Ed è, semmai, questa la verità che vale per tutti. Arriva un punto in cui le persone di cui leggiamo sono più reali di quelle che ci sono a fianco… come se fossimo sempre costretti a sottrarre un po’ della nostra carne, per garantirci un residuo di vita da fantasmi. La nostra eredità è un’alterazione materiale.
Ma se la verità non è possibile, se non è possibile toccare l’anima di una persona, di se stessi persino, se non è possibile dare una risposta alle cose, allora anche le storie dovrebbero perdere le traiettorie. E proprio qui sta il lavoro lucidissimo di Larraín, che rimescola e fa impazzire la cronaca storica e – scommettiamo – la sceneggiatura di Noah Oppenheim. Sancisce la definitiva impossibilità del biopic e manda in cortocircuito l’arco temporale della narrazione, quei tre giorni tra l’assassinio e il funerale di stato, e poi la sepoltura e poi l’intervista. Sembra più propenso a plasmare la finzione che il dato, ma li integra, con quelle interpolazioni del girato nelle immagini e nei sonori d’archivio, che segnano tutto il tour nella Casa Bianca. Accorda alla propria visione la grandezza di Natalie Portman e John Hurt e la bravura di Peter Sarsgaard, ma non cede nulla della sua visione ai bisogni e ai consumi del mainstream. Certo qui passa più aria rispetto ai mondi in decomposizione di Tony Manero e Post Mortem. Ma cos’è un’autopsia? E qualcosa che si riferisce all’oggetto, al corpo morto o alla pratica, alla capacità di dissezionare i resti per giungere a un’ipotesi di verità? Se questa non è un’autopsia poco ci manca… dipende dal fatto che c’è un residuo vitale inestricabile, quasi religioso. Ed è per questo che Jackie si smarca anche dagli intellettualismi che pesavano su Neruda, che assomiglia ancor più oggi a una specie di preparazione, di allenamento intensivo. Qui c’è l’accordo tra la teoria e l’emozione, quella che ti prende quando, nella selva di domande, trovi una spiraglio. Non è proprio una risposta, è una regola di vita, che annichilisce, ma dà una strana pace. Quando cerchi il senso delle cose, arriva sempre il momento in cui ti rendi conto che non c’è risposta. O lo accetti o ti ti suicidi. Oppure, semplicemente, smetti di farti domande.
Titolo originale: id.
Regia: Pablo Larraín
Interpreti: Natalie Portman, Peter Sarsgaard, John Hurt, Billy Crudup, Greta Gerwig
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 99′
Origine: Usa/Cile 2016