Jacques Audiard, il Cinema come profezia del reale

In occasione dell'uscita in sala de Il profeta, ripubblichiamo l'incontro di Sentieri Selvaggi con il regista Jacques Audiard all'ultimo festival di San Sebastian

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audiard a cannes
In occasione dell'uscita in sala de Il profeta, ripubblichiamo l'incontro di Sentieri Selvaggi con il regista Jacques Audiard all'ultimo festival di San Sebastian

"Ci sono più sensi in cui si può intendere la parola profeta. Profeta è colui che reca la parola divina oppure, allo stesso, colui che anticipa, che annuncia qualcosa, un nuovo modello. Ecco per me, per noi, Malik El Djebena è soprattutto un nuovo modello d’individuo che fa il suo ingresso in una società.
Il protagonista è qualcuno che non ha un’identità quando arriva in prigione, non ha una storia… eppure, a poco a poco, alla fine della film si arriverà al punto in cui egli ha scritto la propria storia e trovato la propria identità. Dapprincipio, quando arriva, per i corsi è un arabo e per gli arabi è un corso. Dunque è sempre definito dagli altri per ciò che non è. Se volessimo raccontare questa storia differentemente potremmo dire che Malik El Djebena è interpretato da Tahar Rahim, l’attore. Prima io non conoscevo Tahar Rahim come attore ma, alla fine, si rivela come tale. Ecco: egli diviene un’icona alla fine, come lo è diventato il personaggio del film.
Ci sono più linguaggi nel film… ecco: se dovessi dire quale è la funzione del cinema, direi che è quella di gettare uno sguardo sul reale. Il cinema, in fondo, non esiste se non in rapporto al reale. Penso che a un certo punto il film sia una rappresentazione della società contemporanea. Non so come sia in Italia, ma in Francia quando si scende per strada si nota bene come non esista più una lingua di riferimento, ma esiste un mescolanza, una commistione che fa parte di noi.
Ciò che mi interessava di questo progetto non era la prigione. Tutti i film sull’argomento, i prison movie, le serie TV come
Prison Break, ecc…non mi interessava questo. Ciò che mi interessava della sceneggiatura, così come mi era stata presentata all’inizio, era il fatto che ci fossero degli arabi, dei corsi, dei neri… in definitiva ci fossero delle cose che io non conoscevo. Ecco, questo film mi ha permesso di scoprire cose che non conoscevo affatto. Gli attori arabi… Molti degli attori che recitano nel mio film hanno una piccolissima esperienza d’attore oppure non ne hanno alcuna. Per me è stata davvero una novità."

 

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    In occasione dell'uscita in sala de Il profeta, ripubblichiamo l'incontro di Sentieri Selvaggi con il regista Jacques Audiard all'ultimo festival di San Sebastian

    "Ci sono più sensi in cui si può intendere la parola profeta. Profeta è colui che reca la parola divina oppure, allo stesso, colui che anticipa, che annuncia qualcosa, un nuovo modello. Ecco per me, per noi, Malik El Djebena è soprattutto un nuovo modello d’individuo che fa il suo ingresso in una società.
    Il protagonista è qualcuno che non ha un’identità quando arriva in prigione, non ha una storia… eppure, a poco a poco, alla fine della film si arriverà al punto in cui egli ha scritto la propria storia e trovato la propria identità. Dapprincipio, quando arriva, per i corsi è un arabo e per gli arabi è un corso. Dunque è sempre definito dagli altri per ciò che non è. Se volessimo raccontare questa storia differentemente potremmo dire che Malik El Djebena è interpretato da Tahar Rahim, l’attore. Prima io non conoscevo Tahar Rahim come attore ma, alla fine, si rivela come tale. Ecco: egli diviene un’icona alla fine, come lo è diventato il personaggio del film.
    Ci sono più linguaggi nel film… ecco: se dovessi dire quale è la funzione del cinema, direi che è quella di gettare uno sguardo sul reale. Il cinema, in fondo, non esiste se non in rapporto al reale. Penso che a un certo punto il film sia una rappresentazione della società contemporanea. Non so come sia in Italia, ma in Francia quando si scende per strada si nota bene come non esista più una lingua di riferimento, ma esiste un mescolanza, una commistione che fa parte di noi.
    Ciò che mi interessava di questo progetto non era la prigione. Tutti i film sull’argomento, i prison movie, le serie TV come
    Prison Break, ecc…non mi interessava questo. Ciò che mi interessava della sceneggiatura, così come mi era stata presentata all’inizio, era il fatto che ci fossero degli arabi, dei corsi, dei neri… in definitiva ci fossero delle cose che io non conoscevo. Ecco, questo film mi ha permesso di scoprire cose che non conoscevo affatto. Gli attori arabi… Molti degli attori che recitano nel mio film hanno una piccolissima esperienza d’attore oppure non ne hanno alcuna. Per me è stata davvero una novità."

     

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      Il regista di "Un prophète" intervistato da Sentieri selvaggi

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      audiard a cannes"Ci sono più sensi in cui si può intendere la parola profeta. Profeta è colui che reca la parola divina oppure, allo stesso, colui che anticipa, che annuncia qualcosa, un nuovo modello. Ecco per me, per noi, Malik El Djebena è soprattutto un nuovo modello d’individuo che fa il suo ingresso in una società.
      Il protagonista è qualcuno che non ha un’identità quando arriva in prigione, non ha una storia… eppure, a poco a poco, alla fine della film si arriverà al punto in cui egli ha scritto la propria storia e trovato la propria identità. Dapprincipio, quando arriva, per i corsi è un arabo e per gli arabi è un corso. Dunque è sempre definito dagli altri per ciò che non è. Se volessimo raccontare questa storia differentemente potremmo dire che Malik El Djebena è interpretato da Tahar Rahim, l’attore. Prima io non conoscevo Tahar Rahim come attore ma, alla fine, si rivela come tale. Ecco: egli diviene un’icona alla fine, come lo è diventato il personaggio del film.
      Ci sono più linguaggi nel film… ecco: se dovessi dire quale è la funzione del cinema, direi che è quella di gettare uno sguardo sul reale. Il cinema, in fondo, non esiste se non in rapporto al reale. Penso che a un certo punto il film sia una rappresentazione della società contemporanea. Non so come sia in Italia, ma in Francia quando si scende per strada si nota bene come non esista più una lingua di riferimento, ma esiste un mescolanza, una commistione che fa parte di noi.
      Ciò che mi interessava di questo progetto non era la prigione. Tutti i film sull’argomento, i prison movie, le serie TV come
      Prison Break, ecc…non mi interessava questo. Ciò che mi interessava della sceneggiatura, così come mi era stata presentata all’inizio, era il fatto che ci fossero degli arabi, dei corsi, dei neri… in definitiva ci fossero delle cose che io non conoscevo. Ecco, questo film mi ha permesso di scoprire cose che non conoscevo affatto. Gli attori arabi… Molti degli attori che recitano nel mio film hanno una piccolissima esperienza d’attore oppure non ne hanno alcuna. Per me è stata davvero una novità."

       

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