Jakob’s Wife, di Travis Stevens

La regina delle scream queens Barbara Crampton produce e interpreta una commedia horror agée che sberleffa i film sul vampirismo. Dal Trieste Science + Fiction 2021

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In un genere come l’horror che riesuma ciclicamente le proprie icone per fargli tormentare orde di nuove generazioni, a volte riuscendovi altre meno, anche gli interpreti di particolari cult (postumi) hanno assunto questa dimensione “ritornante”. Così ecco che Barbara Crampton, la regina delle scream queens degli anni Ottanta e dei primi Anni Novanta, dall’ottimo ritorno sulle scene avvenuto con You’re next, del più smaliziato esponente dei giovani nostalgici cineasti statunitensi Adam Wingard, ha avviato una seconda parte di carriera più fortunata della prima. Potendo fare della sua esuberanza – nudi e gore – un grimaldello con cui allargare le maglie di un genere pervicacemente maschile fino a fargli ingoiare, è proprio il caso di usare la relativa terminologia, badilate di fiero femminismo.

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Ecco allora che questo Jakob’s wife, di Travis Stevens presentato Fuori Concorso al Trieste Science Fiction Festival e di cui Crampton è attrice e produttrice. rappresenta la summa teorica della sua carriera, come raccontato dalla stessa attrice nel podcast di Mick Garris, l’ideatore della serie antologica Masters of horror (sempre per tornare alla mitopoiesi della paura cinematografica). Il film di Stevens annovera nel proprio cast un’altra presenza importante dell’indie più truce, capace di marchiarlo a fuoco con la sua follia negli ultimi vent’anni e cioè Larry Fessenden. Si spiega proprio con la presenza delle due star la messa in produzione di una sceneggiatura che probabilmente, senza l’acquisizione di Crampton già nel 2015, avrebbe avuto un budget più risicato. Già, perché Jakob’s wife è una commedia horror in cui i protagonisti sono due coniugi ultracinquantenni che non commettono omicidi in serie e vivono il vampirismo di lei come fosse una “lite domestica” (per citare la battuta migliore del film).
Jakob e Anne, rispettivamente Fessenden e Crampton, sono sposati da quasi quarant’anni e hanno sempre vissuto il loro matrimonio con decoro ma senza passione in un asfittico paese della contea di Kinski. Lui è un pastore di chiesa molto ascoltato nella sua comunità, lei la sua rispettabile consorte che viene però con sussiego zittita ogni qual volta manifesta con un po’ più energia la sua opinione. Quando la donna si incontra con la sua ex-fiamma Tom per acquistare la dismessa distilleria per affari, la mai sopita attrazione tra i due si risveglia con un bacio. Ma l’edificio abbandonato è diventato nel frattempo la dimora di un Maestro vampiro che fa divorare lui dai suoi topi e morde sul collo lei, condannandola alla dannazione eterna. Ecco che questo punto di svolta narrativo diventa anche un turning point per il film stesso che abbandona la titubante suspense iniziale per una più decisa e ridanciana variazione vampirica. Come in ogni rivisitazione che si rispetti, Stevens segue alcuni topoi (il paletto nel cuore, la sete di sangue), ne modifica alcuni (la posizione dei canini, la parziale riluttanza alla luce) e si disinteressa di altri (la maggiore forza del Maestro durante le ore notturne e i motivi della sua venuta in quella cittadina sperduta).

In Jakob’s wife infatti la corruzione demoniaca serve ad Anne per emanciparsi dal ruolo ancillare in cui si era passivamente rassegnata e a farle acquisire una nuova consapevolezza femminista. Niente di rivoluzionario, chiaramente, si tratta piuttosto d’acquisire nuovi spazi di manovra in ambito coniugale, come un fiammeggiante e scollato abito rosso e la rinuncia alla preparazione dei pasti. In questo continuo e sempre più pericoloso gioco al rialzo (ovvero quando i poteri della donna cominciano ad aumentare) alcuni sketch girerebbero a vuoto se non fosse per la generosa performance di Crampton che è particolarmente convincente sia nei toni dimessi che in quelli conturbanti della vampira fatale. La perdurante carica sexy dei suoi sessant’anni – testimoniata da un seno nudo ed un focoso atto sessuale sul pavimento – è solleticata sia dall’occhio della macchina di presa di Stevens che dalla recitazione in sottrazione dell’altrove travolgente Fessenden, che qui si contenta saggiamente di fare da sparring partner in un film nato con un altro intento. Che è, oltre alla celebrazione della sua interprete e l’omaggio sardonico ai succhiasangue (il trucco del Maestro ricorda il Nosferatu di Dreyer), il recupero della dimensione ilare dello splatter. Ecco allora che quando si recide la carotide di una vittima il sangue che sgorga dal suo collo non fa ribrezzo e non spaventa come uno jumpscare. In fondo, l’unica catarsi che abbiamo per non pensare alla Morte è riderci sopra. Al cinema come nella vita.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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