Jerry Lee Lewis: Trouble in Mind, di Ethan Coen

Il ritratto di uno dei grandi padri del rock’n’roll, tutto d’archivio. Ma l’eccessiva concisione costringe a restare sulla superficie di un personaggio proteiforme. In Special Screenings #Cannes2022

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Orfano del fratello Joel, impegnato da solo nell’avventura del Macbeth, Ethan Coen azzarda la carta del documentario, con un progetto sostenuto produttivamente dall’A24 e dalla Jagged Films di Mick Jagger. Un ritratto del grande Jerry Lee Lewis, The Killer, l’ultimo padre del rock’n’roll rimasto in vita e uno dei primi selvaggi del palcoscenico, capace di infiammare il pubblico con le sue funamboliche acrobazie al pianoforte. Ma anche un uomo complesso, spigoloso e contradditorio. La sua vita privata, con lo scandalo del suo (terzo) matrimonio con la cugina appena tredicenne, Myra Gale Brown, che nel 1958 aveva rischiato di mettere in ginocchio definitivamente la sua carriera, era già stata al centro del biopic Great Balls of Fire, di Jim McBride, con Dennis Quaid. Ma c’è molto altro nella vita e nell’avventura musicale di Jerry Lee Lewis.

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E il film di Ethan Coen non tace nulla, anzi. In poco più di 70 minuti, cerca di attraversare tutto. A partire dall’infanzia a Ferriday, in Louisiana, la terra sacra del jazz, con l’iniziazione alla musica nera all’Haney’s Big House e, d’altra parte, l’abitudine alla chiesa e al gospel. I genitori, contadini, sono religiosissimi. E sono proprio loro a comprare il primo pianoforte, su cui Jerry Lee impara a suonare da solo. “Mia madre disse che sarei diventato un vero pianista, mio padre rispose che sarei potuto diventare un buon suonatore di piano. Ancora oggi mi chiedo che differenza ci sia tra pianista e suonatore di piano”. E poi l’inizio della carriera, l’arrivo alla Sun Records di Sam Phillips, i successi di Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, Great Balls of Fire, Crazy Arms, la vorticosa affermazione del rock and roll, grazie a personaggi come Elvis Presley (“era rockabilly”), Chuck Berry, Little Richard. E ancora l’affare Myra Gale, che crea scalpore in Inghilterra prima e poi negli Stati Uniti. La crisi e il ritorno negli anni ’60 alla country music, che segna un nuovo capitolo fortunato della sua carriera. Fino alle nuove fiammate religiose, ai deliri predicatori, al gospel, e i mille incidenti di percorso, i problemi con l’alcool e con la droga.

Insomma una materia ribollente, che Ethan Coen affronta affidandosi completamente al repertorio, mettendo in fila immagini di concerti, apparizioni televisive e cinematografiche (High School Confidential di Jack Arnold), conversazioni. Sono rarissimi gli interventi dei terzi. Praticamente solo alcuni spezzoni di un’intervista a Myra Gale Brown, successiva al divorzio, in cui la donna parla dei demoni e del lato oscuro dell’ex marito. Per il resto è come se Jerry Lee Lewis si raccontasse in prima persona, tra canzoni e performance, battute al fulmicotone, risposte sarcastiche e arroganti, confessioni e spiazzamenti, definitive affermazioni sul rock e sulla musica in generale, sulle origini e sulle influenze, sui compagni di viaggio. Come l’attestato di stima nei confronti di Chuck Berry, “il padre del rock’n’roll” o l’ironia sul mito di Elvis: “ha avuto un grande agente, che lo ha tenuto come una scimmia in gabbia”.

Ma se da tutto questo materiale emerge l’immagine proteiforme di un artista e di uno showman straripante e indomabile, resta anche l’impressione di un eccesso di concisione, che non permette di entrare nella profondità del ritratto (come fa invece Ethan Hawke con Paul Newman e Joanne Woodward). Forse non c’è stato il tempo, come se la scelta di una durata media, perfetta per la TV, avesse costretto Coen a restare sulla superficie dei fatti, impedendogli di illuminare una prospettiva particolare. E così, seppur si intuisce la sua passione per il personaggio, si rimane sul piano di un’oggettività un po’ didascalica. Tutto corretto, m da primo approccio.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.3
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Il voto dei lettori
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