Joaquin Phoenix: quando il cinema brucia l’anima

joaquin phoenix i'm still here

E' nel finale di Two Lovers che si coglie tutta la portata rivoluzionaria del corpo e dello sguardo di Phoenix, quel suo essere contemporanemente dentro e fuori l'immagine, dentro e fuori dal set. Phoenix, corpo e sguardo ubiqui, è completamente nella parte, al punto da annullare qualsiasi distanza tra sé, noi e il personaggio, ma al tempo stesso già oltre, nell'immaginario e dietro la macchina da presa, davanti lo schermo, già spettatore di sè stesso. Mette in campo, come forse mai nessun altro, la propria statura d'attore e i limiti stessi di questa grandezza. Venerdì 4  novembre ore 20.30, UNKNOWN PLEASURES (3). Il cinema è… Joaquin Phoenix

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Decisamente non è stata un’infanzia comune quella di Joaquin Phoenix. Per il contesto familiare, innanzitutto. Joaquin Raphael, infatti, nasce a San Juan, Portorico, il 28 ottobre 1974 da due missionari, John Bottom Amram e Arlyn Dunitz Jochebed, detta anche “Heart”. Terzo di cinque figli, tre femmine e due maschi. è anche l’unico a non aver un nome “stravagante”, che contenga un riferimento “panico” alla natura. Gli altri quattro, infatti, si chiamano Liberty, Summer, Rain e River. Ciò induce ben presto Joaquin a trovare uno pseudonimo, Leaf, “Foglia”.  Comunque la famiglia gira a lunga per il Centro e Il Sud America e decide anche di cambiare il proprio cognome in Phoenix. Intorno al 1980 i Phoenix si stabiliscono a Los Angeles e Arlyn trova un lavoro da segretaria presso l’emittente NBC. E’ una grande occasione di lancio per i figli, incoraggiati sin dalla più tenera età a coltivare le proprie inclinazioni artistiche. Ingaggiato un agente per i cinque fratelli, iniziano per Joaquin “Leaf” i primi impegni pubblicitari, finché, all’età di 8 anni, fa la sua apparizione in una sit-com in cui recita il fratello River, Seven Brides for Seven Brothers, ispirata all’omonimo film di Stanley Donen. Di nuovo al fianco del fratello, compare nel 1984 nel film per la TV Backwards: The Riddle of Dyslexia e, due anni dopo, fa il suo debutto sul grande schermo, ottenendo una parte nel film di fantascienza SpaceCamp, diretto da Harry Winer. Finalmente nel 1987, la prima parte da protagonista in Russkies, film in clima “guerra fredda”, in cui recita anche la sorella Summer. Segue un periodo turbolento per la famiglia Phoenix: prima c’è il trasferimento in Florida, poi la rottura e il divorzio tra John e Arlyn. Ciò non impedisce a Joaquin di apparire nel film Parenti, amici e tanti guai, al fianco di Steve Martin, Rick Moranis e il joaquin phoenix the villagegiovane Keanu Reeves. Tuttavia, nonostante i generali apprezzamenti, Joaquin non si sente stimolato a continuare nella direzione intrapresa e decide di seguire il padre in Messico. Nel frattempo, cresce la notorietà del fratello River, la cui consacrazione avviene con il film Belli e dannati di Gus Van Sant. River, nei panni del giovane narcolettico, riesce a sprigionare un fascino disperato e maledetto, che lo proiettano di diritto nello star system. Ma in quel personaggio è come se fosse già rinchiuso il suo destino. Due anni dopo, nel 1993, River Phoenix muore d’overdose, creando sulla sua figura un’aura mitica ancora oggi non del tutto sopita. Ovviamente per Joaquin, cresciuto sino ad allora un po’ all’ombra del fratello maggiore, lo shock è grande. E’ forse da quel momento che può farsi partire una seconda fase nella sua vita artistica, una ricerca di un’identità e di una personalità svincolate da quelle del fratello.

 

L’occasione gli viene data dallo stesso Gus Van Sant, vero e proprio mentore di giovani talenti. E’ il 1995, quando Joaquin, finalmente liberatosi dello pseudonimo, ha un ruolo importante in Da morire, al fianco di Nicole Kidman e Matt Dillon. Da quel momento in poi, i ruoli per lui si moltiplicano: da U-Turn di Oliver Stone (dove conosce Liv Tyler, sua compagna per alcuni anni), a Innocenza infranta (1997), da Il sapore del sangue (1998) di David Dobkin a Il tempo di decidere di Joseph Ruben. Dopo una parte secondaria nel thriller di Joel Schumacher 8 mm- Delitto a luci rosse, arriva una grande occasione nel 2000. Ridley Scott lo vuole nel suo kolossal, Il gladiatore, nella parte del folle imperatore Commodo. E quanto più Russell Crowe si sottrae magnificamente al suo statuto d’eroe, tanto più Joaquin mette in campo una personalità complessa, ambigua, febbrilmente scissa tra fragilità e crudeltà, disperato bisogno d’amore e incapacità di amajoaquin phoenix two loversre.  Arriva anche la nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista. Il rischio, però, è di rimanere intrappolato nel ruolo del folle. Per un po’, quindi, sceglie la via del cinema indipendente. Finché non arriva M. Night Shyamalan, che lo vuole al fianco di Mel Gibson in Signs (2002) e, insieme all’esordiente Bryce Dallas Howard, in The Village (2004). Joaquin ha finalmente la possibilità di mettere a punto un registro di recitazione diverso, più controllato, misurato. Specialmente nella magnifica e inquietante parabola di The Village, nei panni del taciturno e coraggioso Lucius, Phoenix riesce a rendere un’interpretazione incisiva, in cui profondità e sensibilità appaiono quasi sottotraccia, come ad emergere in maniera latente da piccoli e impercettibili gesti e sguardi. Può finalmente arrivare la prova del nove: una parte da protagonista assoluto in Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line (2005), di James Mangold, biopic del grande cantautore Johnny Cash. Phoenix riesce a cogliere una gamma amplissima di emozioni e di sfumature. Dall’iniziale frustrazione del cantantucolo in erba, si passa agli eccessi del successo, con le esagerazioni, l’alcool, le droghe, le donne. Rabbia, disperazione, passione bruciante per la musica, amore, smarrimento, fragilità, sconfitta e riscatto: una vita bruciata, incendiata, di cui Joaquin diviene maschera perfetta e credibilissima. Una nuova star, si direbbe. Ma le cose non sono così semplici. Perché, in realtà, l’affermazione di Joaquin Phoenix nel panorama del cinema americano (e non solo), ha una portata dirompente. E a testimoniarlo, più di ogni altra cosa, è la collaborazione con James Gray, non a caso il regista più dirompente e assoluto degli ultimi anni. Tre film in poco meno di un decennio anni: The Yards (1999), joaquin phoenix i'm stil hereI padroni della notte (2007) e Two Lovers (2008), i primi due al fianco di un altro attore decisamente poco allineato ed estrememante consapevole come Mark Wahlberg. Tre film che descrivono un percorso che culmina proprio nella scena finale di Two Lovers, quando Phoenix/Leonard arriva a guardare in macchina. Si (ri)guarda e ci (ri)guarda,  palesando il carattere finzionale dell’interpretazione e obbligandoci, al tempo stesso, a un’immedesimazione spiazzante, a sentire sulla nostra pelle la scelta e il destino di Leonard, come se fosse (giustamente) prima di tutto affar nostro. In un istante, si coglie tutta la portata rivoluzionaria del corpo e dello sguardo di Phoenix, quel suo essere contemporanemente dentro e fuori l’immagine, dentro e fuori dal set. Phoenix, corpo e sguardo ubiqui, è completamente nella parte, al punto da annullare qualsiasi distanza tra sè, noi e il personaggio, ma al tempo stesso già oltre, nell’immaginario e dietro la macchina da presa, davanti lo schermo, già spettatore di sè stesso. Il che trova una corrispondenza perfetta nel tessuto profondamente teorico del cinema di Gray, apparentemente, nuovamente classico, ma sottilmente consapevole della liquidità dell’immagine contemporanea, che passa in un attimo dalla visibilità all’invisibilità, dalla leggibilità perfetta (e forse rassicurante) all’inquietudine nebbiosa  di inquadrature che evaporano, lasciando residui incerti, come le scelte e i destini dei personaggi, degli uomini. Phoenix mette in campo, come forse mai nessun altro, la propria statura d’attore e i limiti stessi di questa grandezza, fondata sui fragili meccanismi della macchina spettacolare. Celebra il suo mito e lo rimette in discussione un attimo dopo. E questo paradosso sconvolgente si fa carne e sangue proprio in I’m Still Here, il lucidissimo capolavoro di Casey Affleck (cognato di Phoenix), che racconta la ‘finta’ caduta di Phoenix, deciso ad abbandonare le scene per dedicarsi alla musica hip hop. Un delirio di autodistruzione, che non viene minimamente ridimensionato dalla finzione, dallo smascheramento della beffa mediatica imbastita a bella posta. Perchè ciò che resta, negli occhi e nello stomaco, è una riflessione dolorosissima sull’incerta sostanza dell’immagine ‘pubblica e privata’, sulla perversione del rapporto star-media-pubblico, sull’impossibilità, forse, di una verità dell’ispirazione e dell’emozione. E Phoenix, raggiungendo davvero (perché è davvero che accade!) il punto più basso della sua vita e carriera, coglie il nucleo profondo della sua vocazione, del suo cinema, della sua essenza. Per chiamarsi fuori dal ‘ruolo’ di star, entra dentro la parte, fino al limite estremo dell’interpretazione, quello dell’indistinguibilità tra vita e rappresentazione, tra natura e tecnica, respiro e gesto. Distrugge l’aura del mito, e, magnifico paradosso, lo afferma per sempre. Ce lo consegna eterno, come qualcosa di perfetto e fragilissimo. Come la bellezza impossibile, sospesa sul vuoto del tempo.  

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