John G. Avildsen, l’equilibrio è la chiave di tutto

John G. Avildsen avrebbe ancora potuto insegnare il cinema a chiunque fosse stato disposto a presentarsi da lui per impararlo. Il nostro ricordo del cineasta scomparso la scorsa settimana

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“Walk left, safe. Walk right, safe. Walk in the middle, you get squished like a grape.

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Either you karate do “yes” or karate do “no.” You karate do “guess so,” (get squished) just like grape.”

 

La sconfinata e pittoresca lista di aneddoti che ha contribuito a fondare la mitologia di Rocky ha sempre tenuto in disparte il nome di John Guilbert Avildsen. Il regista venne premiato con l’Oscar ma il suo apporto non è mai stato considerato un fattore determinante del suo trionfo. L’opinione comune della critica e degli storici ha sempre ritenuto che la sceneggiatura di Sylvester Stallone fosse una di quelle che si girano da sole. In effetti, il rapporto con il pubblico si è rafforzato ancora di più quando l’attore ha iniziato a scriversi e a dirigersi gli altri capitoli in proprio. Anzi, il ritorno del cineasta dietro la macchina da presa per Rocky V ha coinciso con l’unica battuta d’arresto nella longeva simpatia tra la saga del pugile italoamericano e il pubblico. John G. Avildsen si approcciò per caso al film che gli cambiò la carriera e senza avere particolari aspettative sulle sue possibilità commerciali. Nelle sue interviste a posteriori non c’è quella componente fatalistica che ritorna sempre intorno alla lavorazione di Rocky. Prima di lavorare insieme, il regista e Sylvester Stallone si erano incontrati per due audizioni e in entrambe le occasioni la futura star era stata brutalmente scartata. La sua prima risposta quando gli proposero il copione fu quella di ammettere che la boxe non gli piaceva e che difficilmente avrebbe potuto fare un film ambientato in quel mondo. Il suo approccio cambiò quando lesse la scena in cui il solitario protagonista torna nel suo spoglio monolocale e accudisce le sue piccole tartarughe. La descrizione di quel momento lo convinse che la storia avesse un ottimo studio sul personaggio e forse non c’è un modo migliore per capire il cinema di John G. Avildsen.

La sua filmografia conta più di venti lungometraggi ma i titoli che catturano immediatamente l’attenzione sono quelli di Rocky e di Karate Kid. La fase più coerente rispetto al suo film più celebrato è quella iniziale soprattutto perché le storie che la compongono hanno le caratteristiche comuni di uno sfondo urbano e di un eroe emarginato. Infatti, le sue scelte successive darebbero l’idea di un cineasta specializzato in film di carattere sportivo. Oppure, farebbero pensare ad un professionista capace di passare con disinvoltura da una commedia come The Neighbors con John Belushi e Dan Aykroyd ad un improbabile dramma antiabortista come For Keeps? La cosa più probabile è che John G. Avildsen si sia formato nel congeniale contesto autoriale della New Hollywood e gradualmente abbia accettato la restaurazione senza particolare entusiasmo. Inoltre, la sua biografia presenta delle grandi occasioni mancate che avrebbero potuto cambiare radicalmente il suo retaggio e che regalano degli spunti di riflessione interessanti. La chiave del successo di Rocky risiedeva nella totale immedesimazione tra la situazione personale della sua star e quella del protagonista. Lo stesso umore e la stessa rassegnazione sembrano animare le dichiarazioni del regista verso le sliding doors della sua esperienza. John G. Avildsen era stato scelto per dirigere Serpico con Al Pacino e Saturday Night Fever con John Travolta ma venne sostituito poco prima dell’inizio delle riprese. La forte presenza del regista nella fase di gestazione dei due film ha contribuito molto a definire la natura da underdog dei personaggi. Il suo stretto rapporto con gli antieroi è stato interrotto dal cambiamento culturale degli anni reaganiani e le sue preferenze si sono ritrovate senza un punto di riferimento.

Il suo primo grande successo è stato Joe con Peter Boyle e la critica celebrò subito la

Sylvester-Stallone-and-John-G.-Avildsen-in-Rockystoria di un sociopatico di New York che mette in pratica un piano per uccidere degli hippy. Il film portò lo sceneggiatore Norman Waxler ad un passo dall’Oscar e dopo questa fruttuosa collaborazione i due si cercarono anche nei loro lavori successivi. L’autore segnalò il suo nome per il suo script sul poliziotto ribelle e il regista lo tirò dentro al progetto sui fanatici delle discoteche di Brooklyn. I motivi che costrinsero John G. Avildsen all’allontanamento sono controversi ma quasi tutte le versioni suggeriscono un rapporto difficile con gli attori. Dino De Laurentiis riportò delle incomprensioni con Al Pacino che lo convinsero a fare una scelta decisa in direzione della futura star. La giustificazione dell’escluso tirò in ballo una scarsa considerazione verso Cornelia Sharpe nel ruolo della fidanzata del protagonista. La donna era anche la compagna del produttore e l’esito dello scontro tra le loro divergenze fu abbastanza scontato. Il regista aveva dei dubbi anche sulla resa coreografica di John Travolta e lo affidò alle cure dello stesso pugile che aveva armonizzato i movimenti nei combattimenti tra Sylvester Stallone e Carl Weathers. Le resistenze della star del film a farsi limitare nelle scene di danza portarono la produzione a licenziare il regista nello stesso giorno in cui ricevette la nomination per Rocky. I problemi con gli attori non sembrano tanto la conseguenza dei capricci di un cineasta volubile quanto il danno collaterale di una grande attenzione al problema dell’interpretazione.

John G. Avildsen ha sempre lavorato con dei piccoli budget e quello che all’epoca della New Hollywood era una medaglia al valore si trasformò in un limite nel momento in cui il cinema americano riscoprì il fascino della grandeur. Il contesto delle piccole produzioni lo aveva abituato a chiedere un’adesione totale tra l’attore e il personaggio per andare oltre le restrizioni economiche. Un mostro sacro come Jack Lemmon decise di prestarsi al gioco e il rischio gli valse un Oscar come protagonista con Save the Tiger. Anche in questo caso, il film era la storia di un outsider e aveva una sfumatura di malinconia e di solitudine che non poteva prescindere da un rapporto empatico con il pubblicoIl personaggio che forse assomiglia di più alla personalità del cineasta è Kensuke Miyagi anche per l’affinità tra il ruolo del maestro e quello del regista. John G. Avildsen ha sempre interpretato il suo mestiere all’insegna del basso profilo e dell’attenzione ai dettagli nella costruzione dei suoi personaggi. Le stesse diatribe che lo hanno allontanato da due film di successo fanno capire che la serietà dell’addestramento è l’unica cosa su cui non è disposto a fare sconti. La produzione cambiò il finale di Rocky V e la delusione e la mancanza di motivazione di Sylvester Stallone rischiarono di affossare per decenni la saga del pugile di Philadelphia. La reazione del regista fu molto più composta anche se condivideva l’opinione che la morte scampata dell’eroe aveva tolto ogni significato al film. I contrasti non gli impedirono di portare a termine il lavoro ricambiando con la stessa moneta l’impegno latitante e la debole determinazione della produzione. La pratica di John G. Avildsen si è sfilacciata nel momento in cui nessuno era più disposto a faticare per avere dei risultati all’interno di un film.

L’esilio degli ultimi anni è il risultato inevitabile non tanto di una serie di titoli sbagliati ma di un cinema che ha iniziato ad avere fretta di tirare pugni. Stare sul set assomiglia sempre di più al carrozzone di Apollo Creed invece che alla palestra di Mickey. La concezione di John G. Avildsen è che l’umanità di un personaggio è la base del cinema e ha bisogno di pazienza per uscire fuori. Forse, prima di iniziare a girare è necessario dare la cera e togliere la cera per ore come se non fosse possibile avere un grande film senza prima fissare la credibilità di un personaggio. La sua lezione non poteva essere applicata alle vertigini visive dei blockbuster ed è diventata irragionevole in un contesto in cui anche il cinema indipendente risponde ad una formula. I suoi film restano un testamento per qualsiasi Daniel-San avesse il tempo e la dedizione di applicarsi ad uno studio più approfondito. Il primo sguardo potrà sembrare superficiale ed invitare alla rapida conclusione di avere davanti un tecnico impeccabile che ha incontrato Sylvester Stallone e ha fatto il colpo della sua vita. La tentazione è solo un tranello lasciato sulla strada per vedere quanto un ipotetico allievo è disposto ad andare in fino in fondo.

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    3 commenti

    • domanda
      ma si può fare un articolo commemorativo sulla carriera di Avildsen senza citare “Salvate la tigre” ?

      risposta
      si

      commento
      purtroppo!

      • il guardia di porta

        Il contesto delle piccole produzioni lo aveva abituato a chiedere un’adesione totale tra l’attore e il personaggio per andare oltre le restrizioni economiche. Un mostro sacro come Jack Lemmon decise di prestarsi al gioco e il rischio gli valse un Oscar come protagonista con Save the Tiger. Anche in questo caso, il film era la storia di un outsider e aveva una sfumatura di malinconia e di solitudine che non poteva prescindere da un rapporto empatico con il pubblico.

    • domanda
      -ma si può fare un articolo commemorativo su Avildsen senza citare “Salvate la tigre”?
      risposta
      -si
      commento
      -purtroppo