Joker – Wild Card, di Simon West

Come altre sortite di Statham, modernariato funky stilizzato al giusto punto di ebollizione, con vero sentimento e passione tangibile nell’andamento desolato e ciondolante, romanticamente alticcio

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Andare a vedere i film di Jason Statham significa andare a lezione di Storia del Cinema, quel genere di cinema che però non funziona più e che alle giovani generazioni non interessa per niente, qua l’eroe mena i cattivi con i manici dei cucchiai di metallo e coi posacenere pesanti, non col martello di Odino, non salva il mondo né i soldi, né la donna, magari stavolta riesce con un colpo di fortuna a salvare se stesso: questo Wild Card ha fatto un tonfo pazzesco in USA, costato 30 milioni di dollari non ne ha portati a casa manco un paio, Jason ha detto in giro che fare a botte con la computer grafica nei marvel movies non ha niente a che vedere con le performance fisiche e atletiche che lui mette in campo nei suoi film, infatti per una mezza giornata girava voce l’avessero chiamato a fare il cattivo nella seconda stagione di Daredevil in tv, poi alla fine non se n’è fatto nulla.

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Invece che ad azzuffarsi per finta nei cieli lo vedremo ancora per un po’ aggirarsi senza redemption per le strade degli ultimi e dei peccatori come questa Las Vegas torbida e rassegnata di neon resi opachi dalla polvere. E così veniamo a noi: nel look, nella concezione e nel mood Wild Card assomiglia a ultime sortite stathamiane come Killer Elite, Professione Assassino (sempre Simon West, che con Jason ha fatto anche I mercenari 2), e Parker – modernariato funky stilizzato al giusto punto di ebollizione, compilato con vero sentimento e passione tangibile nell’andamento desolato e ciondolante, romanticamente alticcio, quasi un Soderbergh prima maniera senza la spacconaggine formale.
Il punto è che tempo abitano i personaggi di Statham?

La parola giusta è inequivocabilmente reincarnazione: l’attore ha ripreso ruoli appartenuti a Charles Bronson, Lee Marvin, David Carradine – sono chiare le coordinate sulla mappa?
Stavolta è il turno di Burt Reynolds, protagonista del primo adattamento del romanzo hard boiled alla base del film, a firma del due volte premio oscar William Goldman, il magnifico Blackjack del 1986, una delle perle dell’action rocambolesco reynoldsiano di metà anni ’80 (i cinefili del nuovo millennio ovviamente ignorano di cosa io stia parlando, rete 4 ha smesso di programmare roba come Malone da anni, è chiaro che ora mi dovreste chiedere “cos’è rete 4?”). Statham ha tra l’altro incrociato l’acciaccato Reynolds nell’unico film di Uwe Boll da salvare dal diluvio, In the name of the king.

Qui, come nei casi succitati, il remake lavora per recupero di alcune sequenze del prototipo salvaguardate nella loro fierezza old school (Nick Wild messo inaspettatamente al tappeto nell’incipit, la lunga notte di vittoria vertiginosa al tavolo del casino, il personaggio di Kinnick giunto a Vegas per diventare seguace di Wild, il sogno della fuga francese che qui diventa in Corsica…), e sfrutta alcuni ganci della storia per lasciar sfogare i pugni di Jason – in quest’occasione ha gioco facile Corey Yuen a sbizzarrirsi in coreografie con armi bianche improvvisate (la tessera del bancomat è un espediente che funziona sempre) data l’allergia per le armi da fuoco che il nostro protagonista si porta appresso dalla versione Reynolds.
E’ talmente anacronistico, come il boss italoamericano di Stanley Tucci, che il film lo vorresti abbracciare: invece ti ci ritrovi a scriverne per l’ennesima uscita da fondo di magazzino in pieno agosto. A Jason non sembra interessare più di tanto: ha appena completato un improbabilissimo sequel di Professione AssassinoMechanic: Resurrection, e si appresta a darci dentro con Fast & Furious 8.
Jason Statham salverà su di sé la Storia del Cinema?

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