Jonathan Demme, il regista che amava le donne
Ci ha lasciato, ma resta immortale. Come Troisi e Truffaut. Un cinema che abbiamo amato e amiamo follemente, Che attraverserà ogni secolo. IN ATTESA DELL’OMAGGIO DI DOMANI SERA DA SENTIERISELVAGGI
C’è sempre una porta aperta nel cinema di Jonathan Demme. Come se i suoi film non debbano finire mai e collegarsi a qualcos’altro. Forse al film successivo, a un concerto, a un’altro squarcio immaginato e non realizzato di possibili, infiniti, interminabili, sequel.
Per questo dopo il 26 aprile scorso, la scomparsa di Jonathan Demme è tra quelle che lascia ancora più increduli. Come, in tempi e forme diverse, quelle di Massimo Troisi e François Truffaut.
Più vite, una sola morte. In un cinema mutante. Che poteva passare dai remake più classici con un respiro politico (The Manchurian Candidate, 2004) ma attraversare anche Parigi ballando tra Stanley Donen e la Nouvelle Vague (lo strepitoso The Truth About Charlie, 2002). Che poteva essere inserito nei codici classici dei generi cinematografici ma poi diventare improvvisamente qualcosa di diverso di nuovo. Qualcosa di travolgente.
Il suo cinema ha una riconoscibilità quasi hitchcockiana. Il segno degli Hannan (1979) poteva essere il suo omaggio più dichiarato. Un thriller con un protagonista al centro di un oscuro complotto che poteva avere quella’ossessione claustrofobica degli spazi anche esterni (in quel caso New York) come I tre giorni del Condor (1975) di Sydney Pollack (1975) o Il maratoneta (1976) di John Schlesinger. Il film si apriva a quelle vertigini improvvise, a quel salto nel vuoto del finale dove la profondità della caduta sembra essere simile a quella di La donna che visse due volte (1958). Le sue soggettive diventano qualcosa di unico. Come gli sguardi incrociati tra Hannibal Lecter/Anthony Hopkins e Clarice Sterling/Jodie Foster in Il silenzio degli innocenti (1991), horror con precise derive del suo mentore Roger Corman in cui si ricicla quella claustrofobia carceraria del suo film d’esordio per la New World, Femmine in gabbia (1974) dove, oltre alla violenza esplicità e le nudità femminili che erano tra le tematiche nei titoli affrontati dalla factory, c’era già una forte identità. Ma anche perfettamente inserito dentro il sistema produttivo statunitense che gli ha fatto vincere 5 Oscar (tra cui quello per il miglior film e la miglior regia). Con quei primi piani strettissimi, ipnotici, da giramento di testa, come quelle distorsioni da capogiro durante il processo di Tom Hanks in Philadelphia (1993).
Le sue commedie hanno sempre avuto una forza dirompente. Da quella politica-fantastica sul ‘sogno americano’ di Una volta ho incontrato un miliardario (1980) che racconta la storia vera del lattaio Melvin Dummar a cui Howard Hughes aveva lasciato parte delle sue fortune, a Qualcosa di travolgente (1987) che trasforma i sogni in incubi e, come aveva scritto “Sight and Sound”, sembra “Accadde una notte scritto da Patricia Highsmith”. Per arrivare a Una vedova allegra… ma non troppo (1988), strepitoso incrocio tra farsa e commedia con Michelle Pfeiffer davvero figura mutante che apre una struttura ad orologeria sui titoli di coda con le scene scartate che mostra, stavolta direttamente, come i film di Demme non siano mai realmente chiusi ma possono riaccendersi, rialimentarsi, anche da un taglio del montaggio. Qui si rintraccia anche il residuo cormaniano di Fighting Mad (1976), moderno western di vendette dove la tensione è come inghiottita nella contaminazione tra i generi. E le tracce on the road arrivavano già da Chroma Angel chiama Mandrake (1977), una delle sue commedie più brillanti e nascoste su un camionista bigamo che ha un incidente stradale e viene raggiunto da entrambe le mogli.
Già dall’esordio di Femmine in gabbia si vedeva la sua potenza nel disegnare le figure femminili. Dagli inizi fino all’ultimo, bellissimo, Dove eravamo rimasti (2015) con Meryl Streep nei panni di un attempata rockstar che torna a casa in occasione del matrimonio del figlio. I suoi scontri con la figlia vera Mamie Gummer, dove il vissuto e la ricostruzione sembrano ormai indistinguibili, sono da urlo. Così come sembra dissolversi la linea di confine tra finzione e tracce di un finto documentario familiare (girato come se fosse vero) in Rachel sta per sposarsi (2008) con Anne Hathaway che ha la magnifica leggerezza dell’improvvisazione. E lì ancora con un finale indimenticabile, come tutto il cinema di Demme, con la porta aperta e la musica eseguita direttamente in scena. La post-produzione che è ancora set vivente. E tra i ritratti più intensi c’è anche quello della casalinga che durante la Seconda Guerra Mondiale va a lavorare in fabbrica e ha una relazione con un compagno in Tempo di swing (1984). Ogni piano su Goldie Hawn cattura tutto il suo tormento e l’estasi, anche produttrice del film con la quale si era creato un forte conflitto con Demme. E, ancora di più in Beloved (1998), autentico film del cuore di Sentieri Selvaggi che non è mai uscito in sala e che era stato distribuito solo in home-video. Film di spiriti ambientato nell’Ohio del 1973 ma anche melodramma selvaggio alla Powell e Pressburger (alla sceneggiatura c’è anche Richard LaGravenese) che scivolava anche nelle zone di un horror fantastico, sempre evidenziato dalla fotografia di uno dei suoi più fedeli collaboratori, Tak Fujimoto, con il quale il regista ha sempre lavorato dagli esordi fino a The Manchurian Candidate. Da Rachel sta per sposarsi invece ha iniziato a collaborare con Declan Quinn. Tra le sue figure più nascoste, ma ugualmente efficaci, c’è anche un bagliore che sembra arrivare dagli anni ’50, la telefonista Susan Sarandon di I commedianti (1982) che a teatro recita Stella in Un tram che si chiama desiderio mentre si innamora di un timido commesso (Christopher Walken) che diventa disinibito solo quando si trova sul palcoscenico.
Jonathan Demme. L’uomo che amava le donne. Capace di danzare sempre tra il sogno e l’incubo, di navigare oltre l’immagine in un universo che poteva apparire onirico. Come in Naut. Forse poteva essere l’unco regista statunitense che avrebbe potuto girare remake di film come Adele H. (1975), La camera verde (1978) o La mia droga si chiama Julie (1969). Perché, come nel grande cineasta francese, il suo cinema poteva diventare all’improvviso un incendio. Bastava un primo piano, una canzone. Come American Girl, tra Il silenzio degli innocenti e Dove eravamo rimasti.
C’è poi il Demme documentarista. E qui prende forma ancora un’altra filmografia. Da una parte ci sono i lavori musicali e qui emerge tutta la passione del cineasta che sembra avesse una collezione vastissima di dischi. Stop Making Sense (1984) è uno dei più bei film concerto di sempre, in occasione del concerto dei Talking Heads nel concerto del dicembre 1983 al Pantages Theater di Hollywood. Tutto sul corpo mutante di David Byrne, che è anche doppo regista che si fa sparare addosso come Jean-Paul Belmondo nel finale di Fino all’ultimo respiro (1960). E poi, la trilogia su Neil Young (Neil Young: Heart of Gold, 2006; Neil Young Trunk Show, 2009; Neil Young Journeys, 2011) e il folgorante Enzo Avitabile Music Life (2012) che dichiara esplicitamente l’iniziale seduzione proprio all’inizio con Salvamm o munno. Ma nei documentari di Demme, la macchina da presa non sembra esistere. La parola e i volti bucano lo schermo. Arrivano direttamente. Dal monologo dell’attore S. Gray in Swimming to Cambodia (1987) che racconta le esperienze vissute sul set thailandese di Urla del silenzio (1984) di Roland Joffé puntando il dito contro l’aggressione militare statunitense ma anche la violenza dei khmer rossi di Pol Pot e l’occupazione vietnamita, al prete battista Robert Castle strenuo difensore dei diritti delle minoranze etniche che è anche cugino di Demme in Mio cugino, il reverendo Bobby (1992); da Jean Dominique agronomo e attivista dei diritti civili che dal 1968 ha diretto Radio Haiti-Inter (assassinato nel 2000) in The Agronomist (2003), fino all’ex-Presidente USA Jimmy Carter che viene seguito attraverso il paese mentre sta presentando il suo libro Palestine: Peace not Apartheid in Jimmy Carter Man from Plains (2007).
Ci mancherà terribilmente Jonathan Demme. Perché abbiamo amato follemente il suo cinema. Oppure non ci mancherà perché il suo cinema diventa immortale. Come quello di Truffaut. Basta rivederlo. Quindi riviverlo. Cronologicamente o confusamente. Non importa. E dietro ogni film c’è sempre quel suo sguardo vivo e il suo sorriso. Non si vede sullo schermo, come succedeva con Massimo Troisi. Ma ce lo immaginiamo. Per un ultimo valzer. Anzi no. Un altro valzer. Si balla. Con gioia. Come i bambini con il tappo dell’obiettivo della macchina da presa di Finalmente domenica (1983). Che è poi la stessa danza del finale di Dove eravamo rimasti. Miglior addio non poteva esserci. Ma non è un addio.