Josée, la tigre e i pesci, di Kotaro Tamura

Personaggi in oscillazione fra la realtà e i loro sogni, in un’opera duale che racconta problematiche concrete con l’afflato della fiaba. In sala per tre giorni evento da Koch Media

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Ancora traiettorie dello spirito, di anime in cerca di una comunione con sé stesse e il mondo e che per questo cercano di superare barriere fisiche, psicologiche e ideali, secondo un filone antico ma sempre attuale nell’ambito della produzione cinematografica nipponica, negli anni più recenti rinvigorito anche dai successi di Makoto Shinkai. In realtà, il primo pensiero di fronte a Josée, la tigre e i pesci corre in parallelo a La forma della voce, con cui la storia condivide l’idea di un rapporto speciale tra un giovane protagonista e una ragazza con disabilità, e non va escluso che proprio il successo di quel film abbia spinto lo studio Bones a dare il via libera al progetto. Di fatto, però, l’origine va datata ancora più indietro, poiché l’opera di Kotaro Tamura è una trasposizione del racconto omonimo di Seiko Tanabe, molto famoso in Giappone anche per la versione live action del 2003 (e ne esiste pure un’altra coreana molto recente, tanto per dare la misura di quanto la breve storia abbia inciso in profondità a quelle latitudini).

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Abbattere le distanze resta in ogni caso la traccia portante di un racconto condotto con partecipe delicatezza, complice anche la mano della sceneggiatrice Sayaka Kuwamura che, in un ideale parallelo con la più quotata collega Reiko Yoshida (quella de La forma della voce, appunto) rinforza una nuova generazione di autrici che si stanno facendo strada in un mercato tradizionalmente declinato più che altro al maschile. Le fa eco la mano di Tamura, forte della sua passata esperienza di art director e assistente alla regia per colleghi quali Mamoru Hosoda e che, nel raccontare il progressivo avvicinamento fra Tsuneo e Josée, iscrive le loro figure in spazi quasi sempre lievemente sfocati. Come se i rispettivi mondi fossero delle “bolle” in cui entrambi sono rintanati per sfogare le loro passioni nascoste, prima fra tutte quella per il mare: una chimera per lei, inchiodata alla sedia a rotelle, un rifugio sicuro per lui, che ha l’hobby delle immersioni.

La poetica degli spazi vividi, ma sfocati descrive in tal senso anche un perenne galleggiamento di queste figure che sono dentro/fuori la realtà, esattamente come una storia che affronta problemi concretissimi con l’afflato della fiaba: disabilità, difficoltà economiche, sogni difficili da inseguire e le cui problematiche sono iscritte direttamente sul corpo sono infatti raccontate senza indulgere in una drammaticità eccessiva, ma attraverso un continuo parallelo con figure mitiche, come quelle sirene che campeggiano nelle fiabe della biblioteca – un altro dei luoghi-rifugio per i due protagonisti. In questo senso è coerente anche la scelta stilistica di un mondo riprodotto con un realismo marcato (alla Shinkai, appunto), ma che nella sfocatura assume una caratura impressionista e pittorica. È come se lo sfondo fosse al contempo staccato dai personaggi, che lo attraversano con la mente verso direzioni altre, ma pure partecipe della loro capacità di sognare una vita differente, anche quando – in un imprevedibile twist della narrazione – i ruoli si ribalteranno.

Questa continua oscillazione fra la presenza reale e la pulsione ideale, delinea pertanto un’opera divisa scientemente in due, con una prima parte più concentrata su Josée: introversa, capricciosa, instaura con Tsuneo un rapporto di subalternità a intermittenza, dove lui guida ma è al contempo il servitore delle sue decisioni, mentre lei lo maltratta ma ne è profondamente attratta. Il dualismo fra persona e personaggio è testimoniato anche dal nome della ragazza, mutuato dalle opere di Francoise Sagan: di fatto lei si chiama Kumiko, ma pretende di essere nominata come l’eroina della sua scrittrice preferita, quasi a voler ribadire la sua pulsione diretta verso un altrove, magari quello dove è una brillante illustratrice o conosce a perfezione il mare, ha “cinque fidanzati” e tutte le storie che di volta in volta rinfaccia al divertito Tsuneo.

Il ragazzo diventa invece più centrale nella seconda parte della storia, in cui è come se assumesse su di sé, letteralmente, le difficoltà dell’amica, comprendendo la sfida insormontabile di dover inseguire i propri sogni con sacrificio. In mezzo ci sono gli animali, la tigre dello zoo e i pesci del mare, che ancora una volta descrivono spazi aperti/chiusi, come i piccoli momenti di complicità in un rapporto spigoloso e aperto anche a triangolazioni più figlie di un meccanismo soap che di una reale necessità narrativa (la rivalità fra Josée e Mai, la collega innamorata di Tsueno). E c’è una ideale circolarità che situa il racconto tra la pulsione fiabesca dell’inizio e la conclusione natalizia, quale sintesi voluta fra realtà e fantasia, quasi una reminiscenza degli ottimismi alla Frank Capra o del romanticismo alla Nancy Meyers.

Il gioco insomma è a rompere le bolle in cui galleggiano i personaggi per la realizzazione dei loro veri intenti. Il tutto con un garbo meravigliato della bellezza dei particolari, dalle specie marine ai petali di ciliegio, che favoriscono l’uso di una tavolozza delicata e un design filiforme e discreto, fornito dal disegnatore e mangaka Nao Emoto. In questo senso, l’insieme di particolari e scelte che potrebbero apparire derivative, conferisce a Josée, la tigre e i pesci una freschezza che ne giustifica la qualità di evento con cui è giunto nelle nostre sale (grazie a Koch Media e Anime Factory) e persino l’apertura al prestigioso festival Internazionale del film d’animazione di Annecy.

Titolo originale: Joze to Tora to Sakana-tachi
Regia: Kotaro Tamura
Distribuzione: Koch Media/Anime Factory
Durata: 96′
Origine: Giappone, 2020

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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