Jouer avec le feu, di Delphine e Muriel Coulin
Le registe puntano sul volto “vivo” e stremato dello straordinario Lindon, che si porta sulle spalle un film altrimenti rischiosamente schematico e stilisticamente monocorde. VENEZIA81. Concorso.
Come era già accaduto con 17 ragazze a Delphine e Muriel Coulin continua a interessare il racconto pseudo sociologico delle giovani generazioni cresciute in provincia. In quel film la località di mare di Lorient, qui invece siamo nella provincia proletaria di Metz e il tema diventa quello sempre più attuale degli estremismi di destra. Il punto di vista però è quello di un adulto, Pierre, un padre vedovo interpretato da Vincent Lindon che convive con i suoi due figli maschi Fuss e Louis. Il primo è uno sportivo metalmeccanico affascinato da violenza e idee reazionarie, il secondo sta per trasferirsi a Parigi per frequentare la Sorbona. Le amicizie di Fuss mettono in crisi l’equilibrio dei tre e minano il legame tra Pierre, di idee politiche opposte, e il figlio. Al terzo film, le sorelle Coulin hanno il coraggio, come accadeva anche nella loro seconda opera, l’antimilitarista Voir du pays, di affrontare un tema attuale e potenzialmente tanto incandescente quanto rischioso e di non cedere a un epilogo consolatorio.
“Questa storia di famiglia, convinzioni politiche, vergogna e riconciliazione è anche la storia del nostro Paese” commentano le due cineaste, a conferma di come Jouer avec le feu intenda affrontare direttamente i conflitti ideologici della Francia di oggi (e non solo), divisa dagli estremismi, dall’odio inter-generazionale, dalle radicalizzazioni che impediscono un dialogo costruttivo tra le parti. Il conflitto tra padre e figlio, ma anche tra i due fratelli, diventa la cartina di tornasole di una Francia disunita e in crisi di identità. Forse proprio per la delicatezza del tema, le Coulin puntano gran parte della posta in gioco sul volto “vivo” e stremato del solito, straordinario, Vincent Lindon che, con la sua energia, i suoi occhi e i suoi silenzi, si porta generosamente sulle spalle un film altrimenti rischiosamente schematico e stilisticamente monocorde. Quando infatti provano a osare visivamente nelle dissolvenze plastiche e oniriche delle danze tribali, inserite quasi a sostituzione delle scene di violenza dei gruppi a cui appartiene Fuss, i risultati sono fin troppo cerebrali e costruiti. E così anche stavolta le registe francesi, a parte pochi momenti – come quello della partita di calcio allo stadio del Metz o della scena in cui Fuss chiede al padre di insegnargli a ballare il rock – dimostrano di trovarsi più a loro agio con la scrittura che con le immagini. Per questo, appena possibile, si aggrappano ai primi piani e ai monologhi di Lindon, ormai interprete militante e presenza morale del cinema francese contemporaneo, qui quasi inchiodato al ruolo, che per qualsiasi altro attore sarebbe ingombrante ma per lui no, di testimone e portavoce ufficiale di una crisi familiare che si fa sociale.