Judd Apatow, The Return

Un intenso racconto, dentro e fuori i meccanismi della stand-up classica: Apatow torna on stage dopo 25 anni e lo fa portandoci tutta l’umanità del suo cinema. Un prezioso regalo di Natale da Netflix

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Gli ultimi tempi devono essere stati piuttosto duri per Netflix. Non dal punto di vista economico, certo, ma a livello mediatico la piattaforma ha visto molti dei suoi nomi di punta – Da Kevin Spacey a Louis CK – finire tritati dalla catena del #metoo. E in questo caso, ha perso.  In effetti, l’unica certezza di questo scandalo è che si perde sempre, qualunque sia la propria reazione: restare vicino all’ “orco” reo confesso, mostrando insensibilità verso il tema pressante delle molestie nel settore? Epurarli – come si è fatto – consapevoli di poter comunque essere tacciati di ipocrisia?

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21FORTY-jumboIl ritorno dello Jedi Apatow a ridosso del Natale sembra in parte offrire un riscatto alla società californiana così come a tutto il genere maschile.
On stage per la prima volta a 25 anni di distanza dalla sua ultima serata stand-up, Judd si conferma il vero uomo che amava le donne versione indie-jewish, passato immacolato tra le spazzole dell’autolavaggio da sessual harassment, avendo lanciato, nell’arco della sua carriera, un’intera generazione di donne coraggiose e intelligenti.

Anche su quel palco, non è da solo. Le tre “versioni in diversa età della stessa donna” sono lì con lui, sul set come nella vita. Leslie, Maude e Iris sono il centro e il motore dell’intera poetica apatowiana, mossa da un calore che solo l’appagamento sentimentale può offrire e che va in assoluta – coraggiosa – controtendenza rispetto ai canoni cinici e dissacranti della stand-up classica.  Ma il microfono e la macchina da presa, la stand up e il cinema sono sempre rimasti canali comunicanti e questo ritorno alle origini, al primo amore, continua a offrire micro-racconti che nella mimica e negli accenti di Apatow si trasformano già in immagini, in nuovi possibili episodi della vita a due da Love a This is 40, con pretestuosi litigi per un nome sbagliato o dispute su chi ha dormito peggio, e confermano Apatow una sorta di versione 2.0 del family man incarnato da Jimmy Stewart o del padre, più anticonformista e incasinato, raccontato a cuore aperto da Ethan Hawke in Boyhood.

judd-apatow-the-return-2In effetti, solo Richard Linklater nei suoi racconti di vita, dove la forma filmica si squarcia e dilata di fronte al mutamento imprevedibile dell’esistenza, raggiunge lo stesso grado di intimità col suo pubblico, come ci si trovasse sempre di fronte a un home-movie, a uno sgranato Super8 che realizzatore e spettatore sembrano aver condiviso. Ne è un esempio Divorce, il poemetto ritrovato in soffitta che, con perfetto taglio alla Boyhood, Apatow recita per la platea: un tuffo nostalgico nella vita di un ragazzino che negli anni Settanta assiste impotente al divorzio dei genitori e trova conforto negli sketch dei comici, sognando un giorno di poter essere come loro “Maybe one day, I’ll be a big star and I’ll ride around in a big car. And I won’t mind that my parents  split, because it helped me write my comedy shits. But for now, life is rough, But I’ll handle it…I’m tough?”

L’implicita malinconia del dubbio – “I’m tough?” – della noia delle giornate trascorse tra casa e lavoro “I spend my weeks at home, weekends at work” si trasforThe Judd Armymano nel corpus filmico che conosciamo e amiamo, quello del Cinderella-nerd salvato dall’amore di una donna bellissima. Nella sua intensa ora di monologo, indirizzandosi al pubblico con la complicità di un papà che finalmente si sta concedendo la sua serata fuori con gli amici – Apatow risponde anche alle critiche di buonismo mosse al suo cinema. Dicendoci, come a suo tempo John Hughes, che nessuna Katherine Heigl o Gillian Jacobs sono effettivamente irraggiungibili per il suo pubblico di sosia, “The Judd Army” (a conferma del totale rispecchiamento autore-spettatore), se Leslie Mann un giorno ha posato il suo sguardo su di lui…

 

Allo stesso tempo, questa dimensione prettamente familiare non esclude mai lo sguardo lucido del produttore, perfettamente dentro i meccanismi narrativi ed economici del proprio tempo: allora la gag del suo smarrimento di fronte alla figlia adolescente che gli mostra video di capre che svengono, bambini asiatici e cani con lo zaino – “più divertenti di ogni mio film” – diventa un discorso pertinente e lucidissimo sulle forme dell’intrattenimento e della comunicazione, all’interno di un contesto in cui “per i nostri figli una foto su Instagram e una serie come, che so, House of cards, sono esattamente la stessa cosa”.

apatow

The return è allora un intenso racconto, sempre garbato, dove le scorrettezze, che pure ci sono, cedono sempre il passo a un ottimismo che ha qualcosa di “new-dealiano” nel candore con cui si manifesta. Dentro e fuori la stand-up : con i tempi del cinema, per cui Apatow prima ci introduce i personaggi, poi viaggia di analessi e prolessi tra i ricordi di un ragazzino pieno di sogni e paure e l’uomo adulto alle prese con i problemi dell’essere padre; ma con la sincerità totalizzante di chi ogni sera mette a nudo la propria vita su un palco, solo, in piedi davanti a un microfono. L’universo Apatow nasce da lì e assistere al suo ritorno, tra foto di esordi e scatti rubati con gli amici Adam Sandler e Jim Carrey, con il divertimento sempre a un passo dal trasformarsi in commosso abbraccio, è un prezioso regalo di Natale.

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