Jules e Jim, di François Truffaut

La visione dell’amore di Truffaut dal romanzo di Roché, dovele affinità elettive dei personaggi collidono continuamente fino a creare un’armonia di dissonanze. Da oggi in sala in versione restaurata

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“M’hai detto: ‘ti amo’, ti dissi: ‘aspetta’. Stavo per dirti: ‘eccomi’, tu m’hai detto: ‘vattene’”. Nell’incipit conciso e spiazzante di Jules e Jim è contenuta l’anima del film. In quelle poche parole recitate da Jeanne Moreau su schermo nero è possibile trovare una dichiarazione d’intenti forte, esplosiva: la vita come tourbillon di sentimenti al centro del quale gravita l’amore, nucleo tematico ed emotivo in grado di scardinare qualsiasi credenza a riguardo, qualora se ne avesse una.
Truffaut invita lo spettatore a partecipare a un gioco senza regole, in cui le affinità elettive dei personaggi collidono continuamente fino a creare un’armonia di dissonanze pura. Il giovane turco, allora quasi trentenne, acutizza quella dialettica romantica che aveva messo in scena in Tirate sul pianista (la timidezza di Charlie/Édouard diventa la causa fatale delle sue perdite), per realizzare un dramma moderno reso attuale proprio dall’ambientazione storica. Anche qui, infatti, dimostra la sua sorprendente sintonia con il testo di partenza, il romanzo omonimo di Henri-Pierre Roché, non distaccandosi da quello che potrebbe essere un ostacolo anacronistico ma superandolo attraverso una morale dai toni universali che non a caso verrà letta sullo sfondo di alcuni movimenti di rottura dell’epoca.

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L’amicizia fraterna tra Jules e Jim, l’anticonformismo di Catherine, il libertinaggio sincero della loro relazione e la (dis)parità sessuale dai tratti confusionari (la donna che si veste da garçon e batte con l’inganno i due uomini in una corsa fino all’ultimo respiro) sono i segni di un cinema che dopo più di cinquant’anni afferma ancora con spregiudicata intensità e immutata spensieratezza la sua assoluta aderenza al reale.
Ed è il regista, al pari dello scrittore, a permettere questo naturale sconfinamento dell’arte nelle forme contraddittorie della vita. L’architettura narrativa traduce con fedeltà l’incedere sincopato della pagina scritta: il montaggio, arricchito dalle musiche di Georges Delerue, contribuisce a orchestrare ritmicamente le immagini
alternando a gioiose sintesi (l’incontro di Jules e Jim in una Parigi frenetica) pause solitarie (lo scoppio della guerra) e riprese riflessive (il ricongiungimento della “famiglia”). Rappresentativo in tal senso è l’ingresso di Catherine: dopo aver inquadrato tre donne che scendono una scala, la macchina da presa si avvicina a una di loro. In primo piano vediamo le sue mani che sollevano la veletta dal viso. Una successione veloce di stacchi frontali e laterali ne immortala i particolari (la bocca, il naso, la fronte), seguendo la fredda descrizione della voce fuori campo che commenta la somiglianza con la statua greca (presentata poco prima con un procedimento simile).

Truffaut si spinge insomma oltre la semplice equivalenza letteraria e reinventa con lucida nostalgia il linguaggio cinematografico rifiutando qualsiasi “virtuosismo di papà” a favore di uno stile personale, veicolo delle passioni umane. Pensiamo ai fermo-immagine che sospendono la linearità temporale per enfatizzare lo stato di felicità di Catherine (“Prima di conoscervi non ridevo mai. Stavo sempre con un muso. Ma ora è finito, sono cambiata, niente più muso”); al mascherino quadrato che circoscrive il campo visivo al sorriso di Jules che si sta innamorando di lei; alle carrellate aeree di eredità renoiriana che nella loro corsa in avanti e indietro rimandano ai moti incerti del cuore.
Partendo dai ricordi di un uomo anziano (quando il romanzo uscì Roché aveva settantaquattro anni), Truffaut elabora quindi la propria visione dell’amore, tragica forse ma autentica, perché legata alla vita. Non importa che sia un amore assoluto – quello di Jules verso Catherine, che si concretizza nella figlia Sabine – o relativo – quello di Catherine per Albert e quello speculare di Jim per Gilberte. Entrambi non sono destinati a durare. In questo carosello della vita e della morte ruotano vorticosamente i personaggi immersi nella loro quotidianità, dalle passeggiate in bicicletta alle separazioni forzate, dai tuffi nella Senna alle gite in spiaggia “alla ricerca degli ultimi segni della civiltà”. E noi, come il piccolo Antoine Doinel nella giostra centrifuga, ci lasciamo trasportare affascinati, senza parole. E alla fine vogliamo salire un’altra volta, per un nuovo giro. Je repars à zéro.

 

Titolo originale: Jules et Jim
Regia: François Truffaut
Interpreti: Jeanne Moreau, Oskar Werner, Henri Serre, Marie Dubois, Vanna Urbino
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata. 105′
Origine: Francia 1962

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