Jurassic World, di Colin Trevorrow

Il quarto capitolo della serie ideata da Steven Spileberg gioca la carta del 3D senza dimenticare classicità e personaggi

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Il cinema spettacolare oggi non può prescindere dalle dimensioni. Lo sa bene Steven Spielberg – qui in veste di produttore e padre progettuale – che le dimensioni del blockbuster postmoderno ha contribuito a costruirle dai tempi de Lo squalo e lo sa anche questo semisconosciuto Colin Trevorrow, qui al suo primo film importante. È chiaro allora che il segreto di Jurassic World consiste nel dopare la visione con l’ormai quasi irrinunciabile 3D e una figura mostruosa nuova, alterata geneticamente, pericolosa per gli esseri umani e i dinosauri stessi. “Ormai i ragazzini non si emozionano più nel vedere un semplice dinosauro”, dice appunto la responsabile del parco Claire (Bryce Dallas Howard). Per far funzionare questo quarto capitolo ispirato alla serie ideata dallo stesso Spielberg e Michael Crichton serve allora un animale più grande, più spaventoso e più cool. Proprio come il cinema e come i sequel, condannati a superare i loro modelli ereditando regole di sceneggiatura, soluzioni di regia ma allo stesso tempo aumentandone vorticosamente i giri, le grandezze. Ecco quindi il terribile Indominus Rex, un mix tra tante specie diverse, intelligentissimo, spietato, capace di mimetizzarsi nella foresta. Una minaccia per l’ecosistema jurassic, al punto che gli uomini si vedranno presto in balia della loro mostruosa creazione in laboratorio per aumentare visitatori e introiti e troveranno come ultima soluzione quella di lasciar fare ai mostri del parco, gli unici in grado di ripulire naturalmente le nefandezze delle leggi di mercato.

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È una metafora affascinante e consapevole quella di Jurassic World. Per quanto divertente il film sembra pervaso da un curioso senso di colpa teorico, nonché da un evidente pessimismo nei confronti dell’Uomo. Inoltre sembra esserci più James Cameron che Spielberg. L’ottusità dei militari che vorrebbero usare i velociraptor come soldati da mandare nei campi di battaglia ricorda quella dei marines di The Abyss, mentre la sequenza della pattuglia sterminata da Indominus riprende a chiare lettere – con le soggettive video dei caschi – quella eccezionale di Aliens scontro finale. A modo suo quindi è un film più politico dei precedenti questo di Trevorrow, che comunque non dimentica che i dinosauri fanno soprattutto parte della storia del cinema (Schoedsack, Irwin Allen, Harryhausen) e della letteratura (Conan Doyle) e che quindi non c’è bisogno di reinventare un linguaggio, quanto soprattutto adagiarsi sulla classicità, sul citazionismo (Gli uccelli di Hitchcock) e sui sentimenti. Alla fine è come se Jurassic World volesse ristabilire l’ordine delle cose: che i mostri si uccidano tra loro, così una volta per tutte gli uomini possono accantonare armi e laboratori e dedicarsi a faccende più umanistiche e “private”, come iniziare finalmente una love story proletaria dopo aver abbandonato l’arroganza da donna in carriera (Claire) o provare ricostruire una famiglia in crisi a partire dai figli (Zach e Gray), che nel brivido dell’avventura si scopriranno più uniti. Anche in un film come questo si può nascondere un piccolo racconto di formazione.

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