Karlovy Vary 42 – I film premiati

myrin jar-cityIl thriller islandese Myrin (che circola con il titolo internazionale Jar City) di Baltasar Kormákur ha vinto il Grand Prix – Crystal Globe del quarantaduesimo Festival di Karlovy Vary, ovvero i 20.000 dollari riservati al miglior lungometraggio in concorso. È un’opera che affronta con solida professionalità (ricompensata dal successo di pubblico, è il miglior campione d’incassi in tutta la storia del cinema islandese) il disagio del vivere, mettendo le mani nel putrido, unico modo per fare i conti con il passato e per pacificare i propri corpi e menti

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myrin jar-cityIl thriller islandese Myrin (che circola con il titolo internazionale Jar City) di Baltasar Kormákur ha vinto il Grand Prix – Crystal Globe del quarantaduesimo Festival di Karlovy Vary, ovvero i 20.000 dollari riservati al miglior lungometraggio in concorso. Un film, quello di Kormákur, che ricorrendo al genere dell’indagine poliziesca si introduce sotto la pelle, fin nelle viscere di una società abitata dalla solitudine, dall’incomunicabilità, dai sensi di colpa, da una disperazione quotidiana che le luci metalliche, livide, e i set immensi e ventosi rendono palpabile e estremamente fisica. E si introduce, Myrin, negli spazi di quella città parallela, socchiusa, ma anche custode di intrighi, evocata dal titolo, nelle stanze di un laboratorio per ricerche genetiche dove sono rinchiusi organi umani a scopo scientifico e dove un impiegato dell’istituto cerca una risposta impossibile per spiegare l’origine della malattia cerebrale che ha ucciso la sua figlia di quattro anni. Mentre un poliziotto (interpretato da Ingvar E. Sigurdsson, uno degli attori più significativi del cinema islandese, ha recitato in Angels of the universe e Falcons di Fridrik Thor Fridriksson, in Cold light di Hilmar Hoddsson) indaga sull’omicidio di un uomo che conduceva un’esistenza marginale nello spazio marginale e oppressivo del suo squallido appartamento. Presente e memoria, storie dell’oggi e del passato, tensioni familiari (a partire dal difficile rapporto fra il poliziotto e la figlia drogata) e drammi che lacerarono per sempre delle esistenze si intrecciano in Myrin che, pur non essendo il film migliore di Baltasar Kormákur (esordì con l’acido e tragicomico ritratto generazionale 101 Reykjavík, uno dei pochi film islandesi a essere stato distribuito in Italia, cui seguirono The sea e A little trip to Heaven, con Forest Whitaker, entrambi nel segno di tragedie incombenti o compiute dentro le quali sprofondare il proprio sguardo), è un’opera che affronta con solida professionalità (ricompensata dal successo di pubblico, è il miglior campione d’incassi in tutta la storia del cinema islandese) il disagio del vivere, mettendo le mani nel putrido (letteralmente, nell’esumazione o nel ritrovamento di cadaveri), unico modo per fare i conti con il passato e per pacificare i propri corpi e menti, come la scena finale (l’abbraccio nella stanza dell’appartamento fra il poliziotto e la figlia ritrovata) sembra suggerire.

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lucky-milesPremio speciale della giuria al film australiano Lucky miles, opera prima di Michael James Rowland, bizzarro e stralunato on the road nel deserto ambientato nel 1990 che descrive le disavventure di tre profughi (un ingegnere iracheno, un cambogiano in cerca del padre australiano e un pescatore di Giava). Bård Breien ha vinto il premio per la miglior regia con il suo intenso film d’esordio Kunsten å tenke negativt (The art of negative thinking), che segue senza pietismi le esperienze di un gruppo di handicappati. Al film spagnolo di David Ullola e Tristán Ulloa Pudor e a quello russo di Alexey Popogrebsky Prostyje vesci (Simple things) i premi per la migliore attrice (Elvira Mínguez, nel ruolo della moglie del protagonista, in un lavoro nel segno delle tormentate relazioni sentimentali, sempre sul crinale fra la vita e la morte) e per il migliore attore (Sergej Puskepalis, nei panni di un anestesista mal pagato che accumula esperienze caotiche, in un testo di semplice immediatezza e sospensione). Premio del pubblico al film ceco Vratné lahve (Empties), commedia dolceamara sulla relazione di una coppia anziana (fa un po’ venire in mente Sul lago dorato…) diretta da Jan Sverák (tra i suoi film la tragicommedia Kolya, premiata nel 1996 con l’Oscar per il migliore film straniero) e interpretata da Zdenek Sverák, padre di Jan, celebre sceneggiatore e attore ceco (che già recitava in Kolya). Spiace che nessun premio, tra i numerosi assegnati dalle varie giurie (l’elenco completo è sul sito www.kviff.com ), sia stato attribuito a Karger, opera prima della regista tedesca Elke Hauck, ritratto individuale e corale di corpi e luoghi dalla Germania dell’Est.

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