Katharine Hepburn, la donna del/nel cinema

Quello della Hepburn, morta a 96 anni, è stato un corpo ludico (fondato su una riappropriazione di estremi tipologici da sempre dominio dell'uomo), portato ad un continuo giocare con le proiezioni rassicuranti dell'ambiente borghese a cui appartiene, per poi inquinarle con scorie mosse e festanti che la conducono dentro orizzonti insospettabili

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Davanti allo schermo, nell'impossibilità di definire il corpo che in questo momento, si fa notizia. Quella della Hepburn è una foto mossa, un insieme di coordinate fisiche che sfuggono all'incasellamento, alla diagnosi, all'analisi. E' l'immagine che affiora di un cinema che cambia la vita, stravolgendola/rappresentandola nel momento in cui la registra, trasformandola in un girotondo inebriante e movimentato di puro artificio al lavoro. Non esiste cinema classico (linea Cukor/Hawks/Huston/Stevens) senza il corpo della Hepburn, senza i suoi movimenti all'interno di un set blindatissimo, così come senza di lei non esisterebbe il passaggio interno/esterno dalla recitazione condotta sul binario dello script, a quella che si stravolge (nel senso dell'andare fuori di sé) nell'atto della insubordinazione, nel momento in cui si va oltre il copione, per sprigionare una libertà di pensiero che riscrive le coordinate dello spazio. In questo senso Katherine (nata il 12 maggio del 1907 a Hatford, Connecticut) è stata una pedina impazzita gettata in pasto ai corollari intransigenti delle major, che ha letteralmente usato per scandagliare certezze ed obiettivi, principi e regole. Una distruzione della catena di montaggio in piena regola insomma, soprattutto poi quando si hanno alleati come Cukor e Hawks. Non parliamo di una semplice attrice, ma di un modo di essere donna, che si sublima soltanto in un secondo momento in modo di essere attrice. Ma si tratta più di ogni altra cosa di aver vissuto il cinema come rutilante laboratorio sperimentale in cui far convivere l'aggressività ribelle con la simpatia scanzonata, la dolcezza con il disincanto. In questo senso la Hepburn non è stata soltanto attrice, ma vera coautrice, da affiancare direttamente agli autori più grandi che l'hanno diretta, e che hanno instaurato con lei un sodalizio in grado di bypassare senza problemi la rigidità di certe regole degli Studios.

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Dall'ormai lontanissimo Febbre di vivere (primo film di Cukor e prima interpretazione dell'attrice) si ha subito come l'impressione che la Hepburn già abiti un personaggio che è il vero e proprio cuore mélo dell'opera. E' lei, infatti, figlia del protagonista che viene scansato da tutti, a riversare sul padre un'onda lunga d'affetto che scavalca strategie e premeditazioni, per farsi puro sentimento, affiorante come segno d'amore carsico, condannato all'implosione. Cukor già centralizza il set, giocando una partita di sguardi e contromosse, costruendo un universo di personaggi continuamente sospesi tra la scrittura infallibile/automatica e il movimento sinusoidale che si avventura oltre il set per riscriverlo in altri spazi (John Barrymore che esce dal manicomio, mentre la giovane Hepburn occupa uno spazio essenzialmente domestico, focolaio di passioni che innescherà un vortice emozionale senza fine). E' come se l'attrice attraversasse i classici luoghi deputati del genere, per abitarli però con un'intensità espressiva (assolutamente fisica) destinata a sublimarsi in stazioni irrequiete di un atto che non conosce strutture (in Argento vivo di Cromwell è una zingara allontanata da tutti, un corpo estraneo alla meccanica sociale di riconoscibilità immediata, ma anche un germe di inadattabilità ad un certo ambiente che scoppia appieno nelle opere successive). C'è ancora la cornice familiare in Piccole donne (seconda opera con Cukor), ma in questo caso proprio non si confà alle esigenze della Hepburn/Jo. La sua è tensione ininterrotta verso l'esterno (in questo senso Cukor dà fiato ad una complessione romantica nata tra le mura di casa, ma destinata a farsi forma soltanto lungo una geografia passionale per certi versi esterna) con Jo che sogna la libertà di poter dare un certo corso alla propria vita, oltrepassando dunque la rigidità del nucleo di partenza. Già in questo capolavoro di forme continuamente mutanti (si passa dalla commedia, al dramma, senza cesure), la Hepburn incarna direttamente la percezione tragica del reale, che di fatto cancella con una esposizione brusca alle insidie del racconto in cui è immersa. C'è dunque in lei proprio questa ansia di frantumare le leggi della dimensione etica/morale che la contiene (in Primo amore di Stevens inventa una ricchezza che non ha per amare liberante l'uomo di cui è innamorata). Già da qui dunque, è chiaro come la personalità dell'attrice americana non faccia altro che disegnare linee di fuga, istanti di purissima e catastrofica deriva di un senso delle cose in continuo sussulto, verso mete assolutamente ideali. In queste prime opere (una vera e propria palestra cukoriana, un laboratorio espressivo lambito da esperimenti che già prefigurano un possibile seguito), la Hepburn incarna violentemente quella che è a tutti gli effetti una controtendenza del personaggio femminile degli anni '30. Accanto alla femme fatale della Davis infatti (esemplari a questo proposito per capire il personaggio Schiavo d'amore e Ombre malesi), assiderata nel mèlo più spinto che gestisce sempre in un funzione di una contropartita materiale, si staglia una donna che non sfrutta l'uomo, che non compie delicate strategie di raggiro ai fini di un preciso tornaconto, ma che abita la tranquillità di un set apparentemente statico, nel tentativo di invertire la rotta, confondere le acque, uscire fuori dal montaggio infernale degli Studios, per ricrearsi un'identità che superi le griglie preconcette impartite dalla società. L'interno, come abbiamo visto, è quello piccolo-borghese, segno di una tranquillità economica che segna il raggiungimento di una certa solidità, ed è il monoset di queste prime opere, destinato però ad essere smontato/decostruito/rifatto proprio in nome di un corpo che non conosce limiti.


E' questa la linea di non-appartenenza della Hepburn, e questa soprattutto la tendenza centrifuga vissuta sulla pelle nella visione. Ci sono delle eccezioni. In Gloria del mattino di Lowell Sherman (suo primo Oscar), è come se improvvisamente si ritrovasse alle prese con la gestione di un tempo dell'attesa (la Hepburn interpreta Eva Lovelace, un'attrice in cerca di successo che si destreggia tra produttori e commediografi), perché il sogno è ancora lungi dal realizzarsi. Qui la Hepburn rivive sul margine dello schermo porzioni di storia personale, riuscendo a intrecciare almeno due livelli (finzione e realtà) all'interno dello stesso meccanismo rappresentativo, coniugato a diagonali perpendicolari alla vita di quel momento. Le stesse che la portano a collassare ogni tipo di arresto in Il diavolo è femmina di Cukor, in cui Sylvia Scarlett (una delle sue interpretazioni più folli e intelligenti) è donna che si trasforma in uomo per tornare donna, innamorata. Qui Cukor abolisce barriere, delimitazioni, blocchi tematici. Tutto è cinema che racconta di un travestimento da capogiro spinto lungo i crinali di una forma in festa, perché solo partendo da una situazione tipo (la protagonista braccata col padre dalla polizia), si possono produrre scarti infinitesimali che raggirano ogni parvenza tipologica, per lanciare il corpo lungo un road movie travestito da racconto di formazione, in cui la parvenza del rappresentare si incrocia con quella del rappresentarsi (Sylvia si unisce ad una compagnia di attori girovaghi), e non resta che prendere atto di un doppio corpo effettivo (uomo/donna) che danza allegro da un genere all'altro, contaminando e (con)fondendo motivi e spazi, all'insegna di un tempo del mascheramento carnevalesco che non conosce quaresima. Ecco allora come in questo frangente la Hepburn prenda definitivamente atto di essere davvero un corpo ludico (fondato insomma su un sentimento di graduale riappropriazione di estremi tipologici da sempre domino dell'uomo), portato ad un continuo giocare con le proiezioni rassicuranti dell'ambiente borghese a cui appartiene, per poi inquinarle con scorie mosse e festanti che la conducono sempre in un altro set, all'interno di orizzonti insospettabili (in Il diavolo è femmina, Cukor osa tantissimo in fatto di spostamenti, deviazioni, fughe in avanti, quasi a voler fuggire dalla sua stessa opera, continuamente esposta al rischio di perdita narrativa). La Hepburn si fa dunque battitrice di spazi impossibili, sospesi tra l'altrove del desiderio e la normalità impassibile della stasi, acquisendo di opera in opera un potenziale energico con cui stravolgere letteralmente il personaggio (in Dolce inganno di Stevens dà avvio ad una nuova trasformazione che la porta a reinventarsi dal niente un corpo, una mimica, un'azione), sempre dilaniato da spinte opposte (in Palcoscenico di LaCava agisce una trasformazione che si concretizza proprio in teatro, quasi a voler continuare il discorso interrotto di Gloria del mattino, con la differenza che LaCava spinge l'impossibile melò su superfici inquiete e ombrose), eppure capace di portare avanti una coerenza ammirabile (in Maria di Scozia di John Ford arriva alla morte, lungo un percorso di amori e tradimenti che la pongono direttamente ai pressi della Storia).


La stessa che in fondo campeggia in Incantesimo (altra opera di un Cukor dalle magliature sempre più perfette), in cui l'attrice, andando espressamente contro i dettami della sua agiata classe sociale, decide di sposarsi con un giovane non certo di famiglia ricca. Cukor tesse traiettorie impensabili in cui la Hepburn ricalca i tratti di una passione che è anzitutto rifiuto di certe norme (il suo corpo nell'opera prende forma da falde quasi invisibili, per fuoriuscire poi dall'oscurità e rivelarsi quale formidabile deus ex machina che fornisce la soluzione, portando però scompiglio), all'interno di un cinema basato in modo determinante sulla parola (straordinaria in questo senso la sceneggiatura di Sidney Buchman e di Donald Ogden Stewart, che scriverà per lei anche Scandalo a Filadelfia), che però nell'attrice si accompagna sempre ad un equivalente agito che a livello visivo rompe clamorosamente con l'orizzontalità piana del verbo. La partitura fisica dell'attrice americana segue certo un copione, ma come se si trattasse di una base sui cui costruire dell'altro, inseguendo i fili invisibili tracciati da Cukor e portati a delle conseguenze di eccezionale efficacia. La Hepburn si ritaglia parti che l'attrice americana classica non ha mai interpretato, rappresenta l'impossibile modernità di un cinema sofisticato, ma al tempo stesso in grado di dare corpo ad uno sguardo inquieto, vibrante, lancinante. In Susanna di Howard Hawks, Katherine produce un vortice che sconvolge il protagonista (il sempre bravo Cary Grant), finendo per trascinarlo direttamente all'interno di una nuova dimensione (quella della perdita di controllo, della follia gestuale, del disequilibrio) in cui regna l'equivoco, la situazione al limite, lo scambio di persona. Susanna è il vocabolario di una lingua ignota agli amanti dell'ordine e della classificazione (il protagonista è paradossalmente un paleontologo, dedito invece ad esercitare su tutto un dominio logico implacabile), una rincorsa alla definizione di un ruolo che scappa inesorabilmente di mano (Hawks non è certo da mano rispetto a Cukor nel lavorare lo stereotipo con una carica eversiva che produce sbandamento e sorpresa, e la Hepburn non fa che minare un certo ordine stabilito, producendo la vera essenza della commedia sofisticata che scopre nell'intreccio indiavolato linee di pensiero non certo rassicuranti). Fin qui, la Hepburn ha incarnato perfettamente un estremo tipologico identificabile all'interno di una precisa geografia domestica, triturata però a forza di strappi e travestimenti, andate e ritorni, quasi a voler ipotizzare un germe di vista nascosta, fremente, passionale, proprio sotto le ceneri della tranquillità middleclass americana. Ci rendiamo conto allora di avere a che fare con lo spettro di un'attrice estremamente vicina alla fantascienza della realtà (il suo è un movimento finzionale che crea scompiglio proprio perchè illumina direttamente nuove possibilità/libertà della donna all'interno del sistema chiuso maschile), incline a concepire il cinema, dunque la recitazione, come un caledoscopio di forme preveggenti rispetto all'attualità (di fatto la tendenza a mutare aspetto e sesso che si riscontra in Incantesimo e in Il diavolo è femmina, è una anticipazione geniale di alcuni tratti della poetica wilderiana), coniugate all'espressione di una vita in fieri, lontana dall'atrofica stabilizzazione in contorni precisi. Dal quadro domestico (peraltro luogo melodrammatico per eccellenza che sarebbe poi scoppiato in tutta evidenza nelle opere successive di Sirk e Daves) dunque, all'uscita vera e propria in un esterno in cui la Hepburn incontra una società in trasformazione, dove però si muove in assoluta libertà, ricoprendo margini di spazio fino a quel momento occupati dall'uomo/interprete maschile.


Nello straordinario Scandalo a Philadelphia di Cukor, rappresenta l'insoddisfazione della vita matrimoniale, la voglia di evadere dagli angusti limiti della vita di coppia per conquistare un politico, salvo poi ricredersi sul marito che aveva lasciato. Un nuovo Cukor dunque, artefice di incontri/scontri quasi ophulsiani, con un cinema che parte dai corpi messi in campo per raccontare una nuova storia di perdite e ritrovamenti che hanno sempre anche fare con un corpo (in questo caso si tratta di un corpo fatto di routine, di stanchezza, di monotonia, messi in pericolo dall'irruzione di una prospettiva differente) sempre gestito e filmato come sedimento visivo di coazioni a ripetere (il meccanismo della slapstick non conosce tentennamenti in Cukor, è puro cinema di artificio fisico riscattato continuamente da inserti che viaggiano veloci e sicuri da un possibile genere all'altro), nell'impossibilità di narrare senza continui inciampi, intermittenze, blackout improvvisi. Poi, l'incontro della vita. Nel 1942, sul set de La donna del giorno di Stevens, la Hepburn incontra quello che sarà il compagno di tutta l'esistenza. Parliamo di Spencer Tracy, a quei tempi sposato con una donna da cui di fatto non divorzierà mai, pur restando sempre accanto alla Hepburn. Anche in quest'opera l'attrice costruisce un personaggio molto avanti rispetto ai tempi (una commentatrice politica che rischia di mandare all'aria il matrimonio con il marito), tutta scatti e frenesie ininterrotte, in perfetto accordo con Tracy con cui condivide una perfetta sintonia. Cukor se ne accorge e con la complicità della Hepburn (il cui contratto prevedeva la possibilità di scegliersi direttamente il partner maschile), chiama Tracy per affiancare l'attrice in Prigioniera di un segreto, melodramma fosco e agitato (è una delle cose migliori di un Cukor forse meno conosciuto, proprio perché estremamente chiaroscurato, incline ad una forma filmica quasi tendente al barocco). I due si intendono alla perfezione, rappresentano ormai una coppia di fatto (nella vita) che si riflette in pieno nella rappresentazione con curve espressive che non di rado rasentano la vera e propria iperbole di un sentimento che si legge sui volti (formidabile in questo senso la battaglia legale trai due in La costola d'Adamo di Cukor, in cui si rifà il cinema di sempre con triangolazioni scatenate di sessi impegnati in una battaglia fisica e dialettica, reale e finzionale). Forse è proprio in questo Cukor del 1949 che la Hepburn rappresenta ormai in pieno la funzione emancipatrice della donna nel cinema americano di quegli anni: il suo è un personaggio che combatte in tribunale, così come nella vita, sublimato poi dal genio cukoriano in segnale di rivolta dialettica contro l'impassibilità femminile nel cinema di quegli anni. Pur calata in un contesto di chiusure illuminanti (il set di fatto, come in tutta la commedia sofisticata, è un concentrato di potenza e intensità costruitissima), è come se la Hepburn sfuggisse allo sguardo della macchina da presa, lanciandosi in voli fisici/verbali che dal campo/controcampo si avventurano nella affascinanti regioni di un immaginario collettivo in formazione (simile il meccanismo di Io e lei, ultimo film dell'attrice con Cukor, con un duetto amoroso il cui set non conosce confini, viaggiando dal campo di golf a quello di tennis, all'insegna di schermaglie amorose che centralizzano l'intero impianto narrativo).

Arrivata quasi ai cinquant'anni, la Hepburn vive in una sola opera il nomadismo frenetico di John Huston, che ne La regina d'Africa, le fa interpretare la parte di una missionaria in viaggio su un battello con un eccezionale Bogart (qui premio Oscar). Anche in questa occasione si tratta di seguire il movimento dell'attrice fuori dal set, in traverse esotiche che sono poi la quintessenza del cinema classico di Huston, veri arabeschi in cui l'attrice si trova perfettamente a suo agio. A partire dagli anni' 50, poi, una serie di opere minori (con l'eccezione di Improvvisamente l'estate scorsa di Joseph L. Mankiewicz, un concentrato di carne al fuoco di un melodramma che arde lentamente, sino a consumare ogni scampolo di visione) che preludono però ad una stagione del ripensamento, venata da effusioni grigie e malinconiche (si veda a questo proposito Leone d'inverno in cui la Hepburn, nella parte di Eleonora d'Aquitania, è immersa in un crocicchio di passioni pronte ad esplodere, ma al tempo stesso sempre ritardare, quasi a sancire l'impossibilità di accedere alla pienezza riassuntiva dell'atto), rappresentate al meglio in uno dei suoi ultimi film, Sul lago dorato (in cui, dopo i tre Oscar per Gloria del mattino, Indovina chi viene a cena e l'appena citato Leone d'inverno, l'attrice vinse il suo quarto Oscar), tessuto filmico pieno di complicazioni sentimentali, dunque molto rischioso sul piano emozionale, e al tempo stesso carico di increspature malinconiche presenti come languide ombre di una presenza (quella del già defunto Spencer Tracy, di cui però il protagonista Henry Fonda usa il cappello). Ci troviamo già alla fine della carriera della Hepburn (terminata di fatto con Love Affair), ma non possiamo non riandare per un'ultima volta indietro, riaccendendo una memoria che ci sobbalza nel bel mezzo dello scioglimento finale di Indovina chi viene a cena. E' l'ultimo film interpretato insieme dall'attrice e da Tracy, che, già malato durante le riprese, morì appena tre settimane dopo la fine del film. Nella folgorazione del discorso finale, Tracy accetta di buon grado che la figlia sposo il giovane di colore che ama. Guardando fisso negli occhi poi la Hepburn (nell'opera sua moglie), augura loro di amarsi almeno la metà di quanto si sono amati loro. Il vecchio Spencer ritrova la grinta di un tempo, termina il discorso, mentre la Hepburn in lacrime. Non c'è più filtro tra storia privata e storia fittizia. La Hepburn piange l'uomo che sta dando il suo addio al cinema e alla vita. E' la sua è più grande interpretazione, proprio nella misura in cui la manca.


Bigger than life.

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