"King Lear" e l'orizzonte del tardo Godard
Presentato al Romaeuropa Festival uno dei Godard meno noti degli anni '80, mai distribuito nelle sale: “King Lear”, realizzato dal regista nel 1987.
Ha un'origine singolare il Lear di Godard. A Cannes, nel 1985, su un tovagliolo (così si racconta), il regista firma un accordo con Menahem Golam e Yoram Globus della Cannon Films, casa di produzione specializzata nella realizzazione di film commerciali. Quello di Godard è uno dei grandi nomi (con John Cassavet
Più che nel radicale, implacabile lavoro di riscrittura e trasformazione originato all'incontro con il testo preesistente (del resto tutto il cinema di Godard si può intendere anche come un inaudito lavoro di radicale riscrittura e trasformazione di testi preesistenti, degli innumerevoli testi, di ogni sorta e spessore, di cui da sempre, costitutivamente, si nutre), King Lear, può essere compreso nell'orizzonte dell'ampia, multiplanare ricerca avviata da Godard agli albori degli anni '80. Singola tessera di un più complesso mosaico, porta in sé i segni individuanti di una vasta vertigine speculativa – cui qui si può solo accennare – che attraversa tutta la produzione tarda del grande cineasta: la coscienza della definitiva deriva della società occidentale, dell'impotenza (auto)rappresentativa delle società moderne, del disfacimento dei valori dell'umanesimo (l'apocalittico post-Chernobyl di questo Lear in cui tutto è scomparso, poi ricomparso, ad eccezione dei film e delle arti in genere); la memoria (del cinema, della bellezza, …) come luogo residuale di resistenza, di una pur disperata opposizione alla deriva ed all'oblio in cui tutto ricade (il discendente cercatore che tenta di ricomporre le opere perdute del suo grande antenato ed i folletti, "segreti sentieri della memoria"); la riflessione relativa alla nozione di immagine, all'originarietà dell'immagine, alla sua consistenza etica ed estetica ed infine alla possibilità di una sua autentica resurrezione (la (re)invenzione del cinema ad opera del "sopravvissuto" Pluggy e la frase di S. Paolo, ricorrente in questi anni); l'assimilazione tra arte e fuoco (come il fuoco, l'arte si origina da ciò che distrugge), secondo una suggestione dovuta a Malraux, già rintracciabile in Scénario du film "Passion" (1982); la presenza autenticamente costruttiva della pittura, consueto interlocutore dell'inquadratura e, più in generale, del film godardiano (qui, tra gli altri, Giotto, Goya, Renoir,…), oltreché, naturalmente, della scrittura (i cartelli, ricorrenze dominanti nel cinema del regista e l'atto stesso dello scrivere che è qui ad un tempo un comporre ed un recuperare), ecc. Ad uno sguardo ancor più ravvicinato – ed attento ad alcune insistite ricorrenze tematiche ed espressive – si dovrà inoltre notare (lo hanno fatto, ad esempio, S. Liandrat-Guigues e J.-L. Leutrat) come più propriamente King Lear mostri la sua diretta, specifica coappartenenza al gruppo di opere realizzate da Godard tra il 1987 e la metà degli anni '90.Film materico e minerale, King Lear inscrive in ogni caso la propria densità in un'identità dichiaratamente parziale e problematica, si definisce, come tanti film del regista, nel proprio farsi, esibisce infine apertamente gli strati del proprio comporre e nodi intrecci circuiti del proprio stratificato ragionare.