Kong: Skull Island, di Jordan Vogt-Roberts

Il reboot di King Kong prova a liberarlo dall’inevitabile finale dell’Empire State Building. La nuova versione lo inserisce nel contesto narrativo dei kaiju e il risultato finale è molto spassoso

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La vorace esigenza hollywoodiana di avere sempre un franchise a portata di mano ha spinto la Warner a puntare sulle possibilità di sfruttamento dei kaiju. L’esperimento narrativo è nato per caso e ora si trova a dover stabilire a ritroso una coerenza ancora indefinita. Pacific Rim di Guillermo Del Toro era ambientato nel 2020 mentre Godzilla era un suo prequel non dichiarato e trovava una collocazione temporale nella nostra epoca.
Kong: Skull Island è a tutti gli effetti un film sulle origini e torna indietro fino al primo incontro tra l’umanità civilizzata e i mostri. La brillante citazione iniziale di Hell in the Pacific di John Boorman mette le cose in chiaro sin dal primo momento. Il film di Jordan Vogt-Roberts possiede una personalità stilistica autosufficiente come i suoi correlati. Il legame con Pacific Rim è solo suggerito mentre quello con Godzilla è intessuto dal ritorno sulla scena della Monarch.
I crossover hanno sempre bisogno di una sovrastruttura per tenere unita la saga durante tutte le fasi e tutti gli scenari della sua evoluzione. L’organizzazione governativa che indaga sotto copertura sulla presenza dei kaiju in giro per il mondo servirà come collante per tutti possibili incroci tra il gorilla gigante hollywoodiano e le bizzarre creature della Toho?

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Le previsioni sugli sviluppi di un’epopea che sembra espandersi rischiano di sottrarre attenzione al valore specifico di Kong: Skull Island. La sceneggiatura a quattro mani ha il merito di schivare i passi obbligati della presentazione del personaggio principale e di proporre una versione eretica. King Kong di Peter Jackson si consumava fino in fondo in un confronto ad armi impari in cui il cineasta neozelandese voleva conservare lo spirito del cinema classico del predecessore e migliorarlo con il CGI. Il suo kolossal non proponeva nessuna evoluzione che non fosse quella della tecnica e cercava di immaginare cosa avrebbe fatto Willis O’Brien se avesse avuto un computer invece di un pupazzo a passo uno. Il film di Jordan Vogt-Roberts non può essere inserito nemmeno nel circuito del revival del genere d’avventura che era stato timidamente iniziato da The Legend of Tarzan di David Yates.

Il nuovo viaggio nell’isola nascosta si svolge alla fine della guerra del Vietnam e aggiorna i personaggi rituali del genere all’interno di una colonna sonora piena di canzoni dei CCR. Il riferimento ai luoghi comuni della prima parte selvaggia del film di Merian C. Cooper sono espliciti ma vengono rinnovati con l’accostamento di altre ispirazioni. Il consueto conflitto tra la parte scientifico/antropologica della missione esplorativa e quella militare/affaristica è un pretesto per contaminare Kong: Skull Island con altri miti. La hybris dell’uomo che sfida le forze primordiali della natura affonda in Moby Dick di Herman Melville e abbraccia l’iconografia di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Ovviamente, l’innesto resta soltanto ad un livello di superficie ma basta a salvare il film dal sospetto dell’ennesimo reboot privo di giustificazione. Il copione sarà pure eccessivamente ludico e privo di implicazioni epiche ma almeno insiste davvero su un altro terreno. John C. Reilly è il

kong-skull-islanddisperso della guerra contro i giapponesi e sdrammatizza il rapporto con il modello di Dennis Hopper con una brillante dose di umorismo e il desiderio di tornare per rivedere una partita dei Cubs. Samuel L. Jackson guida il suo squadrone di elicotteri invitto con il carisma superomistico di Robert Duvall e si trasforma in Achab quando vede che Kong lo annienta senza difficoltà. Il filo conduttore con Godzilla si trova soprattutto nell’impotenza degli umani davanti alla lotta di forze che non possono essere combattute ma solo indirizzate.

Jordan Vogt-Roberts gestisce l’impresa di tenere un film da duecento milioni di budget con un’invidiabile disinvoltura. Una familiarità insolita per un regista che ha maneggiato solo materiale televisivo e un film da Sundance come Kings of Summer del 2013. Brie Larson si libera del complesso di Fay Wray e i modi da diva del cinema muto lasciano spazio a quelli di un’audace fotografa di guerra. La nuova definizione dell’eroina è un segno evidente di un cambio di passo rispetto alla parabola de la bella e la bestia. Forse, sarà stato per non scivolare nella competizione con l’imminente versione live-action della Disney del suo grande classico. Oppure, è semplicemente il tentativo di alleggerire King Kong dal paragone impossibile con sé stesso. Il pubblico dirà se ha nostalgia del gran finale sull’Empire State Building o se si accontenterà solamente dello spasso della sua lotta con degli spietati kaiju.

Titolo originale: id.
Regia: Jordan Vogt-Roberts
Interpreti: Tom Hiddleston, Brie Larson, Samuel L. Jackson, Corey Hawkins, Toby Kebbell, Shea Whigham, Jason Mitchell, John Goodman, John C. Reilly
Distribuzione: Warner
Durata: 118′
Origine: USA, 2017

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