Kontinental ’25, di Radu Jude
Il ritorno del regista a Berlino dopo l’Orso d’oro del 2021. Con un film forse troppo illuminista e illuminato, troppo convinto delle sue ragioni . BERLINALE75. Concorso

Bastano i minuti iniziali a inquadrare l’operazione di Kontinental ’25 e a restituire la misura esatta del cinema di Radu Jude. Le quotidiane peregrinazioni di un homeless, Ion, un povero disgraziato che si aggira per parchi e strade, raccogliendo bottiglie vuote e rovistando nei bidoni della spazzatura. Chiede degli spiccioli ai clienti di un bar o di un locale, si offre per dei lavoretti qualsiasi, piscia davanti a tutti, mentre bestemmia tra sé e sfancula il mondo intero. E sono scene, quasi siparietti, oggettivamente divertenti. Nonostante il peso della condizione che rappresentano.
Il film cambia improvvisamente strada, ma non intende variare di tono. Un’ufficiale giudiziaria, Orsolya, si presenta con dei poliziotti nella casa che sta occupando abusivamente il barbone. Ha il compito di sgombrare l’edificio: c’è una società che lo ha acquistato e ha altre mire, costruire un nuovo albergo di lusso, il Kontinental. Ma Ion si suicida, strozzandosi al termosifone con un filo di ferro. È il momento decisivo, ma mentre i poliziotti stanno cercando di praticare delle disperate manovre di rianimazione, qualcuno cita Staying Alive. Un’altra risata pare inevitabile. A tutto c’è un limite, forse… ma al di là dei moralismi, bisogna prendere atto che questo è l’orizzonte entro cui ci muoviamo. Un cinema che nel momento stesso in cui mostra da vicino, ha bisogno di esercitare una distanza che è innanzitutto intellettuale.
In ogni caso, presa dal senso di colpa, Orsolya inizia una personalissima via crucis. Che prima la porta a litigare con la madre, dopo una discussione su Orban, poi a mettersi in viaggio, ricontattare un suo vecchio studente, rimettere in discussione le sue stesse scelte. Non prima di aver cercato conforto da un pope. Nessuno sembra in grado di capirla e di alleviare la sua pena. Che rimane perciò senza definizione e soluzione. Ma, tutto sommato, la vita continua…
Insomma, Kontinental ’25 attraversa le sacche di povertà morale e spirituale di questi tempi malandati. E, come sempre, Radu Jude sembra avere una parola su tutto. La situazione politica internazionale e la storia della Romania, la progressiva affermazione di una mentalità nazionalista e reazionaria, le devastazioni dell’economia e la speculazione edilizia. Come mostrano quelle inquadrature finali sui palazzi in costruzione e sui tetti di Cluja, in cui sembra di avvertire un’eco del finale de L’eclisse, quasi fossimo di fronte a un Antonioni senza più metafisica, ridotto allo specchio di una desolazione esistenziale più concreta (e forse per questo, molto meno inquietante). Sin dall’incipit, poi, emergono degli elementi dissonanti, che fanno da contraltare ironico. Dei dinosauri in un parco che si muovono meccanicamente ed emettono dei versi improbabili, un cane robot che saltella suscitando le imprecazioni Ion. Poi un’automobile telecomandata che manderà in bestia il prete. La tecnologia futuristica è una nota stonata nel medioevo presente e assume le forme dell’assurdo. Mentre per le strade abbondano slogan, manifesti, dichiarazioni di principio ormai svuotati di ogni senso, come l’altare anticomunista su cui si siedono ubriachi Orsolya e il suo studente Ion.
Il film rende un omaggio scoperto a Europa ’51 di Rossellini, il cui manifesto campeggia nel bar di un cinema. Ma è girato con un iPhone e con dispositivi essenziali, un digitale che è una presa diretta delle cose e che segue la linea tracciata sin dal primo segmento di Sesso sfortunato e bugie porno. Il sorriso si mescola alla tragedia e sostanzialmente l’annulla. Quel che resta è una sensazione di imbarazzo e di raccapriccio, forse indignazione. Persino una scopata nel parco ha un che di desolante.
Radu Jude si conferma, insomma, un regista intelligente, forse troppo, acutamente sensibile allo “stato delle cose. Ma l’intelligenza da sola non basta mai. L’impressione è che il suo cinema sia sempre troppo illuminista e illuminato, sempre troppo convinto delle ragioni della sua prospettiva e del suo giudizio. Si esprime in pamphlet, in uno svolgimento conseguenziale di teoremi e dimostrazioni logiche. E punta a coglierci in flagrante. Del resto, noi spettatori non siamo mai davvero “innocenti”. Il modo e il tono influenzano la visione, certo, ma le reazioni rispondono a qualcosa di più profondo, alla nostra sensibilità e ai nostri sommovimenti più o meno inconsapevoli. Radu Jude lo sa benissimo e per questo gioca a metterci di fronte alla spietatezza del nostro sguardo. Che non è poi diverso dall’atteggiamento dei suoi personaggi. Persino della protagonista, la cui crisi profonda sembra un malessere, sottile, diffuso, ma senza effettiva consistenza. Non certo la spinta a una radicale rivoluzione. Il mistero di follia di Rossellini e di Europa ’51 è completamente azzerato. Forse perché non ha più senso oggi? Forse… Mentre affiorano domande, che per avere una risposta non banale, avrebbero bisogno di una ben altra dimensione e prospettiva. Il sospetto è che il cinema di Jude, così attento a mostrare le distorsioni del presente, possa coniugarsi solo in questo tempo e solo nei modi dell’indicativo. Senza poter andare al di là dello specchio di questi anni “senza cuore”. E se fosse solo uno dei tanti riflessi possibili?