La Battaglia dei Sessi, di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Un ensemble perfetto che racconta, senza problematizzare, un evento sportivo che ha fatto epoca. I registi scelgono una colorata confezione che privilegia l’emozione alla riflessione. Grande Carell

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20 settembre 1973. Il cinquantacinquenne tennista californiano Bobby Riggs, numero 1 della classifica maschile nel 1946 e vincitore di un torneo di Wimbledon (1939) e di due U. S. Open (1939 e 1941), affronta in una partita in tre set la numero 2 della classifica femminile, la ventinovenne statunitense Billie Jean King. Già pochi mesi prima, il 13 maggio, si era svolta una partita tra l’ex campione americano e la numero 1 delle donne, la trentenne australiana Margaret Court, dopo che la King aveva declinato l’invito. Bobby Riggs aveva infatti affermato pubblicamente che nonostante la sua età sarebbe stato in grado di battere anche le migliori giocatrici donne. La prima partita si disputò a Ramona, in California, e non ebbe storia: Riggs si era preparato a dovere fisicamente ma soprattutto tatticamente, infatti, utilizzando dei pallonetti e dei drop shot, riuscì a mandare subito in crisi la Court, che forse sottovalutò l’incontro, infliggendole una dura umiliazione. “Mothers’ Day Massacre”, così sarebbe diventato famoso il 6-2, 6-1 maturato nel giorno della festa della mamma. Dopo questo incontro Riggs apparve sulla copertina di Sports Illustrated e del Time Magazine.

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a-new-report-flips-the-script-on-the-famous-match-between-billie-jean-king-and-bobby-riggsA quel punto la King – già vincitrice di cinque tornei di Wimbledon (1966, 1967, 1968, 1972 e 1973), di tre U. S. Open (1967, 1971 e 1972), di un Australian Open (1968) e di un Roland Garros (1972) – decise di tornare sui suoi passi e studiò attentamente il fallimento della sua collega, preparando per Riggs un’accurata ragnatela tattica. Era una giocatrice aggressiva, amava il gioco di rete, ma quel giorno, all’Astrodome di Houston, davanti a 30.492 spettatori, scelse di piantarsi a fondocampo e giocò con Riggs al gatto col topo, evidenziandone l’imperfetta condizione atletica. In particolare, la tennista giocò frequenti smorzate e costrinse Riggs ad affidarsi ad un serve and volley per lui innaturale e soprattutto troppo dispendioso dal punto di vista energetico. La King vinse tutti e tre i set previsti (6-4, 6-3, 6-3) alla faccia di Jack Kramer, ormai commentatore televisivo, che la stessa King era riuscita a far estromettere dalla cronaca della partita per le sue dichiarazioni: “Kramer non crede nel tennis femminile, quindi non crede in metà di questa partita. Perché dovrebbe prendervi parte?”. Billie Jean si portò a casa anche un assegno da 100.000 $, a testimonianza del seguito mediatico dell’evento. Tanto che qualcuno si arrischiò ad avanzare l’ipotesi di una sconfitta premeditata da parte di Bobby Riggs, con l’obiettivo di guadagnare una grossa cifra scommettendo contro se stesso. La partita fu seguita in televisione da oltre 90 milioni di persone. “In un clima culturale in cui tutto sommato la superiorità del tennis maschile non era ancora stata messa in discussione”, scrive in un interessante articolo Alessandro Stella, “il successo di King fu trasformato più nell’ovvio risultato di una battaglia generazionale che celebrato come l’inaspettata affermazione di una donna nella battaglia dei sessi. È parere comune che la seconda edizione della Battle of the Sexes abbia effettivamente foraggiato una nuova consapevolezza del valore del circuito stesso nei vertici del tennis femminile. Un lungo percorso ha condotto verso una progressiva parificazione di opportunità e montepremi tra A.T.P., la federazione maschile, e la neonata W.T.A., eretta proprio nel 1973 grazie all’apporto di Billie Jean King”. Della partita contro Riggs la King disse: “Ho pensato che saremmo tornati indietro di 50 anni se non avessi vinto quella partita. Avrebbe rovinato il circuito femminile e fatto perdere l’autostima a tutte le donne. Il match ha ispirato anche un film per la televisione con Holly Hunter del 2001, un documentario del 2013 ed è stato recentemente al centro di un episodio del dramedy I’m Dying Up Here.

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I registi Jonathan Dayton e Valerie Faris (LEGGI QUI le dichiarazioni raccolte da Sentieri Selvaggi), dopo gli acclamati Little Miss Sunshine (2006) e Ruby Sparks (2012), scelgono di raccontare questo particolare evento sportivo e di metterne in scena non tanto, e non soltanto, l’effettiva ricostruzione storica, quanto soprattutto il contorno psicologico e culturale, a cominciare dalle diatribe interne alla federazione tennistica sulla notevole forbice dei compensi riservati agli uomini a scapito delle donne e dall’impegno da parte di molte delle giocatrici più in vista di avere diritto ad una maggiore visibilità e considerazione – anche economica (basti pensare che le donne percepivano 1/12 di quanto incassavano gli uomini in termini di premio finale) – scelta che portò alla decisione di “ammutinarsi” e di finanziare in proprio una serie di tornei che porteranno poi alla costituzione della W.T.A., la federazione femminile. Ed è proprio l’indirizzo dato alla pellicola dalla coppia di registi americani a fare in modo che Battle of the Sexes – presentato in anteprima mondiale al Telluride Film Festival in Colorado – vada oltre il biopic, non si riduca ad uno sport movie e tanto meno si risolva in un film di denuncia. Innanzitutto, l’esperienza di lunga data nel settore dei video musicali e nell’ambito pubblicitario, attraverso la loro Bob Industries Production, si fa sentire nella confezione squisita e nella levigatura delle immagini, che la fotografia dello svedese Linus Sandgren (American Hustle, 2013; Joy, 2015; La La Land, 2016) fa virare verso tonalità pastello con accensioni di rosso e di arancio e adombra di una filigrana tra il seppia e il sabbia come a catturare lo spirito, anche cromatico, di tante pellicole dei Seventies. Dayton e Faris restano fedeli alla loro idea di cinema, capace di stemperare il dramma senza tuttavia nasconderlo e di proporre più storie in una attraverso angolazioni diverse affidate ad un sapiente montaggio. La loro macchina da presa si sofferma spesso sui volti dei protagonisti, diaframma teso a coglierne le emozioni e le espressioni più profonde, e agisce come una sonda che raccoglie queste impercettibili schegge epidermiche ed emotive per proiettarle successivamente nel racconto collettivo, di un momento storico o di un incontro-scontro con l’altro: un approccio insieme intimista e raffinato che si rivela particolarmente funzionale ad un’idea di commedia intelligente ma edulcorata e “ripulita”, relazionale ma privata, dialogica e vivace ma attenta alla riflessione interioreBattle of the Sexes gioca le sue carte migliori proprio nella capacità di rifuggire ad una classificazione di genere: non c’è abbastanza epicità e drammaticità performativa per farne una icastica cronaca di sport, ma al tempo stesso ci sono abbastanza agonismo e riferimenti sportivi da non renderlo una pura e semplice commedia in salsa vintage; il tono generale della narrazione è decisamente (e deliberatamente) leggero – per quanto solo in superficie – perché si possa parlare di pellicola di impegno sociale o di riproposizione di temi e modelli femministi nella stessa misura in cui lo spazio vitale e il fulcro drammatico sono equamente distribuiti tra i due protagonisti e hanno margini di applicazione tanto attuali ed universali da non consentire di poter liquidare il tutto come una biografia dedicata alla celebre campionessa di tennis.

la-battaglia-dei-sessi-2Dayton e Faris frullano tutte queste suggestioni in un prodotto gustoso che tuttavia non abbandona mai un sostrato di dolce comprensione o di ironica ma indulgente commiserazione per i propri “ingredienti umani” e mirano principalmente ad emozionare piuttosto che a problematizzare: il loro campo di tennis è un affollato teatro (talvolta grottesco quanto basta) che si fa vita attiva e vissuta più che agone di dibattito culturale e proscenio di battaglie sociali e dicotomie sessuali. In sostanza, ai due registi non interessa granché commentare e giudicare, anche perché, se vogliamo, un giudizio è intrinseco nelle interpretazioni “sopra le righe” (Carell) o “sotto i baffi” (Pullman), così come non sta a cuore ricreare in maniera documentaristica e con acribia storica l’atmosfera – tutt’altro che garbata e ridanciana – delle molte battaglie per i diritti che si combattevano in quegli anni, mitizzati dalla patina del tempo e “romanticizzati” da classici della musica pop che ritroviamo in alcuni dei momenti più significativi della pellicola – da Rocket Man di Elton John a Crimson e Clover di Tommy James & The Shondells. Al centro ci sono due persone che potrebbero rappresentarne tantissime altre e che trovano la propria dimensione soltanto nello sport, nella fattispecie su un campo da tennis, perché fuori sono in precario equilibrio e non sanno ancora quale direzione prendere, se restare a fondocampo e agire di rimessa o se venire a rete e imprimere il proprio gioco. Steve Carell e Emma Stone sono perfetti nell’infondere ai loro personaggi debolezze da nascondere dietro una racchetta e maschere da esibire al dibattito pubblico prima che in loro stessi si compia una maturazione completa. Il Bobby Riggs di Carell è, anzi, il personaggio forse più riuscito e “drammaticamente” burlesco della pellicola, il che è tutto dire in un film che affronta tematiche come i diritti delle donne. Il suo è un maschilismo consapevolmente innocuo, pompato dai media per caricare di senso e di risvolti socio-politici un evento sportivo, ed è un filtro per non vedere le proprie défaillance di padre e di marito e per “rifugiarsi” nell’ossessione delle scommesse e nella patologia del gioco. E, in fondo, è soprattutto lui ad attirare simpatia ed empatia, riuscendo addirittura nell’impresa di portare dalla sua parte il tifo dello spettatore (di cinema e di tennis). I tratti e i pregiudizi più beceri, ma sempre sfrondati delle spine e criticamente depotenziati, sono piuttosto affidati al Jack Kramer di Pullman e a un generico e sfumato establishment che sembra non avere tempo ed epoca nella sua indefinitezza. Di contro, emergono in maniera prepotente e precisa altre due espressioni e altri due modi di vivere ed interpretare, più che lo spirito dei Seventies, la propria sessualità e il proprio “ruolo”, anche sociale, nei confronti di Billie Jean King: l’amante Marylin Barnett (un’eccellente Andrea Riseborough, sensuale e al tempo stesso eterea) e il marito Larry King (un misurato Austin Stowell). Ecco, a questi due personaggi, comprimari, è affidato un ruolo centrale, quello di accompagnare con delicatezza e sensibilità la King nella propria battaglia interiore, comparendo e mettendosi da parte per non intralciare l’accidentato percorso personale della tennista e, addirittura, scomparendo del tutto di fronte alla sua ragione di vita: il tennis. Nella sceneggiatura di Simon Beaufoy (premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale nel 2009 per The Millionaire di Danny Boyle, qui, non a caso, nelle vesti di produttore) ammiriamo questa capacità di raccontare en ensemble a patto di accettare e farci andare bene il già sottolineato procedimento di “scarnificazione problematica” e di “risoluzione in superficie” dei drammi personali e delle battaglie sociali. Naturalmente, la denuncia del maschilismo imperante e la lotta per il riconoscimento dei diritti degli omosessuali hanno ben poco di “risolto” e un accenno al recentissimo (?) scandalo del produttore statunitense Harvey Weinstein è sufficiente a ricordare che non è questo lo spazio per affrontare temi tanto scabrosi. E forse, anzi, sicuramente, non lo è neppure il film di Dayton e Faris. Raccontano i due coniugi registi: “Abbiamo cominciato a lavorare al progetto nel 2016 quando le primarie americane facevano finalmente pensare all’elezione di un presidente donna, un’occasione più che giusta per parlare di disparità di genere. Il risultato delle elezioni, però, ha gettato una luce diversa anche sul nostro film: abbiamo allora deciso di far virare la storia verso le vicende personali dei due protagonisti, impegnati ad apparire diversi da quanto in realtà sono. Sotto i riflettori dei mass media, Billie Jean e Bobby fingono di essere altri e celano le loro lotte: come le star di oggi, accontentano l’immaginario mentre nel privato cercano il coraggio per vivere come vogliono”. D’altro canto, per restare in ambito tennistico, la storia si ripete. Nel 1992 andava in scena la terza “battaglia dei sessi” tra Martina Navrátilová (36 anni) e Jimmy Connors (41 anni). Furono stabiliti alcuni “vantaggi di cortesia” per la tennista: corridoi validi per lei, un solo servizio per lui. Finì 7-5, 6-2 in favore di Connors con annessi rumours di scommesse attorno all’evento, diventati realtà con la sua ammissione nel 2013: “Ho scommesso un milione di dollari sulla mia vittoria. Il mio problema di giocatore d’azzardo era fuori controllo“. Ricordiamo ancora la sfida del 1998 tra Karsten Braasch, tennista tedesco con il vizio della birra, all’epoca numero 203 al mondo, e le sorelle Williams, che avevano dichiarato di essere in grado di competere anche nel circuito maschile e di poter sconfiggere qualsiasi tennista uomo posizionato oltre la 200a posizione: Braasch liquidò con un  secco 6-1 Serena e con un perentorio 6-2 Venus, all’epoca rispettivamente 16enne e 17enne. E ricordiamo le bizzarrie di Noah contro Henin (2003) e di Djokovic contro Li Na (2013). E se un tale di nome John McEnroe, e siamo nel 2017, si riferisce a Serena Williams, ai box per la nascita del primo figlio, sostenendo che “sarebbe la numero 700 del mondo tra gli uomini”, vuol dire che, in fondo, la “battaglia dei sessi” è ben lungi dall’essere terminata.


Titolo Originale: Battle of the Sexes

Regia: Jonathan Dayton e Valerie Faris

Origine: USA/UK, 2017

Interpreti: Emma Stone, Steve Carell, Andrea Riseborough, Sarah Silverman, Bill Pullman, Elisabeth Shue, Alan Cumming, Natalie Morales, Austin Stowell, Eric Christian Olsen, Martha MacIsaac, Jessica McNamee, Wallace Langham, James MacKay

Distribuzione: 20th Century Fox

Durata: 121′

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