La casa delle estati lontane, di Shirel Amitaï

Un cinema teatrale dove la parola non si libera ma appesantisce un film che si spaccia per quello che non è e che vuole essere metafora di un’illusione di un cambiamento con soluzioni solo forzate

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Tre sorelle. 1995. Israele, dove la pace finalmente sembra possibile. Nella cittadina di Atlit Cali ritrova infatti Darel e Asia per vendere la casa che hanno ereditato dai genitori. Ma restando sul posto qualcosa cambia. Affiorano ricordi. E anche fantasmi. E quando il 4 novermbre il progetto di pace fallisce, le tre donne decidono di restare lì.

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La casa delle estati lontane appare quasi una piéce teatrale. Shirel Amitaï, già assistente per Jacques Rivette, Pascal Bonitzer e Claire Simon, predilige una dimensione teatrale dove la vicenda sembra suddivisa per atti. Ma la parola non si libera per aria ma resta lì e appesantisce una vicenda sospesa tra il privato e la Storia, con la tv accesa che segna la speranza e la delusione per un vero cambiamento nel paese. Si sente il treno che passa ma anche il rumore degli elicotteri. Un giardino incolto con la casa che appare un luogo di transizione e di memoria che invece diventa solo pesantemente metaforico, così come l’immagine dell’asino Rasoutin all’inizio del film.

La cineasta vuole mostrare la speranza e la delusione ma fallisce proprio nella descrizione delle piccole cose della quotidianità dalla cucina del polpo alla luce da aggiustare. Si cerca la leggerezza della commedia francese ma poi si pensa che non sia la strada giusta. E allora ci si muove confusamente verso le zone del fantastico con Pippo Delbono e Arsinée Khanjian nei panni dei genitori che sono come confuse proiezioni di una coscienza o di un ricordo. Oppure verso il dramma, dove le lacrime e la perdita di spontaneità sembrabno solo costruite a tavolino.

La casa delle estati lontane è l’esempio di un cinema che vuole apparire come intenso e profondo, mostrando il legame e le difficoltà del rapporto tra le tre sorelle. Dal movimento iniziale (il viaggio in treno) alla provvisoria di stabilità, tracce di un film nomade (il viaggio in India, il finale) in un’opera che spaccia e rinnega il suo nomadismo. Che si mostra per quello che non è, con interpretazioni forzate tranne quella di Yaël Abecassis nei panni della sorella maggiore. Con una spontaneità che sembra solo il lavoro tecnico di estenuanti prove teatrali. Ma l’emozione è solo simulata.

Titolo originale: Rendez-vous à Atlit

Regia: Shirel Amitaï

Interpreti: Géraldine Nakache, Yaël Abecassis, Judith Chmela, Arsinée Khanjian, Pippo Delbono

Distribuzione: Parthénos

Durata: 90′

Origine: Francia 2014

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