La città proibita, di Gabriele Mainetti
Un gongfu movie a Piazza Vittorio capace di accendersi nelle scene di combattimento ma che frena quando si ostina a inseguire atmosfere mélo. Come mangiare un’amatriciana con le bacchette

Cina, 1979. Nel pieno della politica del figlio unico, una coppia di genitori tenta di nascondere alle autorità governative una delle loro due bambine. Stacco. Una ragazza cinese di nome Mei, che sembra essere finita nel giro della prostituzione delle Triadi, afferma di voler ritrovare la sorella perduta. Si rifiuta di spogliarsi e si ribella agli ordini, così inizia una lunga sequenza di combattimento kung fu che attraversa diversi ambienti, da un magazzino di merce contraffatta alla cucina di un ristorante dove ogni oggetto viene utilizzato come arma; wok, pezzi di carne e olio bollente. La giovane si rivela letale e imbattibile, e una volta fuori dall’edificio si ritrova a metà anni Novanta nel traffico del rione Esquilino, nel cuore di Roma. Due universi così differenti tra loro si scontrano improvvisamente creando uno shock vertiginoso, come quello che separa un tradizionale ristorante cinese da un’antica osteria romana.
Se Lo chiamavano Jeeg Robot ha portato i supereroi a Roma e Freaks Out i mostri del circo nell’occupazione nazifascista, il nuovo ambizioso film di Gabriele Mainetti è un gongfupian a Piazza Vittorio. La città proibita gioca fin da subito su questo contrasto, tra il cinema di Hong Kong e quello italiano, tra una foto con Bruce Lee e una con Alberto Sordi (e Francesco Totti), tra una zuppa di lamian e un’amatriciana. Il primo pensiero è inevitabilmente per L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente con Bruce Lee o il più recente Kill Bill di Tarantino, ma l’atmosfera romanesca da commedia all’italiana ricorda molto più l’indimenticato Delitto al ristorante cinese di Bruno Corbucci. La città proibita è in realtà il nome del ristorante di Wang, il boss che Mei ritiene essere il responsabile della sparizione della sorella, ma nelle vicinanze sotto i portici della piazza c’è un altro ristorante, una tipica osteria romana in cui Mei incontra Marcello (Enrico Borello), il figlio del proprietario con il quale è fuggita sua sorella. Un ragazzo intrappolato nella cucina di famiglia che passa le giornate tra una comanda e l’altra senza alcuna prospettiva futura. I due giovani prima si scontrano e poi si uniscono in una ricerca che li porterà ovviamente ad avvicinarsi molto più del previsto, nonostante le differenze culturali e la barriera linguistica.
Uno degli aspetti più riusciti del terzo lungometraggio di Mainetti è la ricostruzione di un quartiere vivo, colorato e multiculturale, in cui convivono pacificamente diverse etnie ormai perfettamente inserite nel contesto urbano. Se non fosse per squallide figure come Annibale, un dinosauro della vecchia malavita romana interpretato da Marco Giallini che ritorna dalle parti del Terribile di Romanzo Criminale. Annibale tenta in ogni modo di rallentare questo processo di ibridazione del tessuto urbano, sfruttando gli immigrati africani e contrastando gli acerrimi rivali: i cinesi. Ma i dinosauri sono destinati a estinguersi, o almeno si spera, così da lasciare spazio a una nuova generazione più pronta e aperta agli orizzonti futuri. Ma l’unico modo per farlo è liberarsi dalle gabbie provenienti dal passato, soprattutto in una città immobile e indolente come Roma, dove “tutto è permesso e niente è importante”, l’esatto opposto dell’Estremo Oriente. In questo senso il fulcro del film è l’incontro tra i due mondi opposti, Mei e Marcello, in quel viaggio notturno in motorino in stile Vacanze Romane dove il ragazzo non si dimostra il miglior cicerone possibile: “esatto Mei, quella è n’artra chiesa”.
La fotografia di Paolo Carnera contribuisce a plasmare un’estetica forte e coerente, in grado di distinguere a livello visivo tra gli ambienti cinesi e quelli romani, con forti accelerate nelle sequenze di combattimento, tra le migliori viste nel cinema italiano. E se La città proibita si accende improvvisamente nelle scene di azione, è nell’inseguire in modo ostinato le dinamiche e le atmosfere del mélo che perde di intensità, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra Giallini e Sabrina Ferilli e un flashback tutt’altro che necessario. Un aspetto che non si era mai fatto notare nel cinema di Mainetti, probabilmente da rintracciare nel cambio in fase di sceneggiatura, da Guaglianone alla coppia di impostazione televisiva Bises-Serino. Restano le ottime interpretazioni dei due giovani Liu e Borello, un’attenta mappatura cartografica della città e soprattutto la visione sempre sorprendente dell’autore, capace di sperimentare con generi e registri come nessun altro in Italia.
Regia: Gabriele Mainetti
Interpreti: Enrico Borello, Yaxi Liu, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Luca Zingaretti, Chunyu Shanshan
Distribuzione: PiperFilm
Durata: 137′
Origine: Italia, 2025