La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri
Tra fantapolitica, dramma sociale, pamphlet rivoltoso e utopia di un socialismo solidale. Palma d’oro al Festival di Cannes ex-aequo con Il caso Mattei. Oggi, ore 12.30, Iris
Con il mio film sono stati polemici tutti, sindacalisti, studenti di sinistra, intellettuali, dirigenti comunisti, maoisti. Ciascuno avrebbe voluto un’opera che sostenesse le proprie ragioni: invece questo è un film sulla classe operaia.
Elio Petri, 1972
Jean-Marie Straub, al festival di Porretta Terme, parlando della “Classe operaia”, disse che film così vanno bruciati. lo raccontai quella che era la storia di tutti, di come in questa società non si possa vivere che nell’alienazione. Il rapporto del tempo esistenziale con quello produttivo, in un operaio, è evidentemente il lato più drammatico della sua giornata, e io mi occupai soprattutto di quello.
Elio Petri
da “L’avventurosa storia del cinema italiano”
Nel 1970, quando ancora a Milano nevicava, Elio Petri e Ugo Pirro scrivevano un film che avrebbe provocato una fortissima spaccatura all’interno della sinistra, avrebbe provocato reazioni virulente e inattese da parte di alcuni autori che assistettero alla prima al festival di Porretta Terme. La classe operaia va in paradiso, con il suo misto di fantapolitica, di dramma sociale e utopia di un socialismo solidale, non mise d’accordo nessuno e tutti ne rifiutarono gli assunti. Jean Marie Straub, presente alla prima del film, chiese che le copie venissero bruciate. Ma Petri, oggi perduto maestro di un cinema al contempo politico e proiettato verso un’utopia lontana, del tutto alieno da ogni scuola e tradizione italiana, disse come si legge in esergo, che il suo film non era diretto né agli studenti, né alla politica, né ai sindacalisti, ma voleva solo parlare della classe operaia. Oggi cinquant’anni dopo quel film lascia ancora un segno nei suoi assunti così radicali, rivelando una genialità consolidata e una vista molto lunga sui mali sociali che attraversano ancora, nel nostro presente, l’Italia del sogno industriale tramontato.
Il protagonista Ludovico Massa, un incontenibile e duttile Gian Maria Volonté, detto Lulù, è un operaio di 31 anni, sebbene i quindici anni in fabbrica pesino tanto da farlo sembrare più anziano. Lulù ha due famiglie da mantenere il nuovo compagno della ex moglie è un suo collega in fabbrica e la nuova compagna, Lidia, una già perfetta Mariangela Melato, è una parrucchiera che vota Democrazia cristiana e non ha alcuna coscienza di classe. Lulù è uno stakanovista e guadagna bene con il cottimo, ma la contraddizione sta nell’assenza di una vita che così possa essere definita. È vita quella di chi entra in fabbrica alle prime ore del mattino e ne esce quando è già buio? È quello che gli grida uno studente trentenne e fuori corso, fuori dalla fabbrica, ma anche la vita di quello studente non è delle migliori tra contestazioni nelle scuole e davanti alle fabbriche, sonno arretrato e una già avanzata precarietà.
Un incidente sul lavoro trasformerà Lulù che acquisirà coscienza della propria situazione, della sua vita da alienato, distaccato da ogni affetto. Lulù tornerà in fabbrica con altre idee in testa.
I temi del film appartengono al dibattito politico della sinistra di quegli anni, pienamente dentro la logica che contrapponeva, con i toni accesi dello scontro politico, la riaffermazione del sistema capitalistico contro la embrionale tutela, ma già avanzata sotto il profilo della cultura politica, dei diritti di quella classe operaia così difficile da organizzare. Elio Petri e Ugo Pirro affrontavano il tema da intellettuali, ma il loro calarsi dentro queste diatribe che non erano oziose, ma attraversavano con intensità i vari strati sociali, emerge in un film che sembra posseduto da una forza evocativa che sta a metà tra il racconto segnato da una vena di fantapolitica – come spesso accade con Petri – e il pamphlet rivoltoso, ma che in fondo sembra viaggiare come dentro un lungo incubo con la sua voglia di trarre la forza della sua stessa esistenza dal volto e dalle espressioni di un Gian Maria Volonté così trasformato rispetto al Dottore di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di qualche anno prima. Il suo personaggio è sempre costretto dentro spazi angusti, dentro inquadrature asfittiche, primi piani che traducono la follia che sembra sfiorarlo. Lulù è avviluppato dentro una spirale senza fine con una gran confusione in testa, diviso come è tra il suo fascino verso l’alienazione assoluta che distacca dalle cose della terra che qui prende le sembianze di Militina, Salvo Randone premiato per la sua magistrale interpretazione, e una concretezza quotidiana che lo spinge a produrre sottomettendosi quasi volontariamente alle logiche capitalistiche della produzione e del consumo. Il controcanto è, invece, proprio il vecchio operaio, quel Militina ormai definitivamente alienato che vive da solo in un manicomio e che Lulù va a trovare di frequente affascinato come è dalle sue analisi apocalittiche e dalla sua vita così incompiuta.
Come spesso è accaduto al cinema italiano e forse non solo a quello, il film ebbe un’ottima accoglienza in Francia e al Festival di Cannes vinse la Palma d’oro e Gian Maria Volonté una menzione speciale per la sua interpretazione così libera da ogni schema consolidato, grazie anche ad una sceneggiatura, come egli stesso ebbe a dire, che gli concedeva ampi spazi di libertà.
Il tema dominante del film risiede in quella costante alienazione da fabbrica che assorbiva completamente ogni residuo tempo all’operaio che così diventava “massa”, quell’alienazione già raccontata da Chaplin e che Petri qui ingigantisce e drammatizza, riportando gli argomenti alla contingenza del capitalismo che affida alla produttività del cottimo la sua riaffermazione. È proprio su questa profonda spaccatura tra tempo della produzione e tempo da dedicare alla propria vita che Lulù percepisce e comprende una verità profonda e capisce che se non vuole finire come Militina deve cambiare ed è per questo che il suo ritorno in fabbrica, dopo l’incidente in cui ha perduto un dito, non è accolto con la felicità che gli altri avrebbero voluto. Petri e Volonté sottraggono ogni mito alla classe operaia dell’epoca e il film fa emergere con chiarezza i conflitti che ancora oggi, sotto differenti forme e atteggiamenti, la sinistra si porta dietro. Il cinema di Petri si fa ancora una volta spiazzante, ancora una volta centrale nel cogliere le contraddizioni sociali, come già in Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto o come in molti altri dei suoi film, aggiungendo un’anima segreta alle proprie immagini che si fanno cupe e anticipatorie di quel drammatico futuro che già sembra intravedersi. Pochi anni dopo con Todo modo, film vicinissimo e antitetico a questo, ma appartenente alla stessa dialettica politica, quel futuro preconizzato avrebbe assunto toni ancora più neri e indecifrabili, perseguendo e concludendo un lungo discorso durato per molti anni.
Il pregio maggiore, che oggi si possa riconoscere al film, è la sua splendida inattualità, il suo essere di un altro tempo, la sua aria vivace di documento d’epoca, inossidabile nella sua possibile utilizzazione, ma inattuale poiché estraneo ad ogni dibattito in corso, nella certificazione ormai avvenuta di una felicità costante che le nostre società sembrano avere acquisito tanto da essere private di desideri e speranze. Un film come La classe operaia va in paradiso è sicuramente dedicato, invece, a chi le speranze le coltiva(va), nonostante il pessimismo profondo che lo pervade.
Regia: Elio Petri
Interpreti: Gian Maria Volonté, Salvo Randone, Mariangela Melato, Luigi Diberti, Gino Pernice
Durata: 112’
Origine: Italia, 1971
Genere: drammatico