La Corsica e le sue contraddizioni – Thierry de Peretti parla di "Apache"

thierry de peretti

In occasione dell’incontro dopo il suo film Apache, il regista ci svela una Corsica percorsa da contrasti, diffidenze, cicatrici di ferite inflitte da altri. E parla di una gioventù invisibile, che sconta violenze ataviche e poi le adotta quasi inconsapevolmente

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thierry de perettiAll'incontro di Apache, film tratto da un fatto di cronaca accaduto in Corsica otto anni fa, intervengono il regista Thierry de Peretti, la distributrice Emanuela Piovano (che durante l’intervista ha svolto il ruolo di interprete) e il critico Tullio Masoni, che comincia subito col contestualizzare l’opera.

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Tullio Masoni: Questo è il primo lungometraggio del regista. I suoi maestri, nel cinema, sono Garrel, Assayas e Pasolini, a cui ha dedicato un cortometraggio. Riguardo ad Apache, credo che già la prima inquadratura contenga il film. Un’immagine ferma, che stabilisce subito una distanza: quella del regista e quella dello spettatore. Del resto nel film prevalgono i campi lunghi, i campi medi e i divisori, che spesso sono vetri.

 

Il film ha carattere autobiografico? Perché ha deciso di girarlo?

Thierry de Peretti: Io vengo dalla Corsica e ogni volta che rivedo il film scopro cose riconducibili a me stesso, nonostante la mia giovinezza lì sia stata completamente diversa da quella descritta.

 

 

Il film è dedicato a due persone. Chi sono?

Thierry de Peretti: Due persone che non ci sono più. Un mio amico attore, scomparso poco prima della stesura del film, e il ragazzo ucciso in Corsica: il fatto di cronaca da cui è tratto Apache. Una delle sfide del film è stata quella di restituire la memoria collettiva di un ambiente. Un’altra sfida è stata quella di estrarre il nome della vittima dagli elenchi delle cronache e renderlo immortale. Era importante esorcizzare il delitto, girando proprio nel luogo in cui era accaduto, quasi appartenesse a tutte le persone che l’hanno vissuto. La sfida fondamentale era rappresentare la Corsica, descritta pochissimo dal cinema e dalle altre arti. E rappresentarla proprio attraverso una delle sue storie più dure: una storia che appartiene ancora più dei miti alla collettività.

 

 

I colpevoli sono stati presi? Quali elementi di questo fatto di cronaca ha preferito mettere in luce?

Thierry de Peretti: I colpevoli sono stati scoperti due anni e mezzo dopo il delitto. È stato proprio uno di loro che non ha più resistito e si è costituito. La piccola città di Porto Vecchio è divisa da un confine piuttosto fluido: da un lato il capitalismo opulento, il turismo dei ricchi, e dall’altro le tare di una violenza atavica. La gioventù rispecchia queste due facce. Inoltre le famiglie locali si sono arricchite nel giro di pochissimo tempo, e ciò ha influito anche sul paesaggio: accanto a questa opulenza si ergono case non finite. Queste contraddizioni fanno sì che si avvertano molto le barriere etniche, nate dopo l’indipendenza dell’Algeria, quando in Corsica si creò un divario profondo tra i francesi colonizzatori e i nordafricani colonizzati. Anche nel delitto di cui parla il film si respira la paura dell’altro, del francese.

 

 

apacheIl gruppo di giovani in questo film non si può neanche definire “branco”, in quanto formatosi più che altro per contingenze, e privo di uno spirito solidale. Come ha lavorato con questi ragazzi?

Thierry de Peretti: Ho tenuto un workshop e conosciuto il 95% degli attori locali tra i sedici e i vent’anni, non solo per formare il cast, ma anche per avere un’idea precisa di questa gioventù. Per un anno abbiamo lavorato molto sull’improvvisazione e vissuto a stretto contatto, facendo in modo che loro si adattassero alla sceneggiatura e viceversa. Io vengo dal teatro e sono molto interessato al condividivere con la troupe ogni momento.

 

 

Come mai ha deciso di girare con il formato classico 4:3?

Thierry de Peretti: È il formato primitivo, quello del ritratto. La mia opera ruota attorno a un fatto di cronaca, ma ha un’anima realistica e una al contrario anti-documentaristica. Volevo rappresentare questo attrito.


 

Lo sguardo in macchina finale dei “borghesi” vuole richiamare il pubblico a un giudizio morale?

Thierry de Peretti: Questa è una domanda che mi fanno spesso alle presentazioni. Io, più che a un messaggio, sono interessato alla disseminazione di un messaggio, come delle scintille buttate qua e là. Il finale vuole quasi incoraggiare gli spettatori a rivedere il film dall’inizio. Il fatto che gli attori indichino verso la macchina da presa suggerisce che siamo tutti coinvolti, e che questi giovani criminali poi è come se sparissero. Dal punto di vista morale, però, non me la sento di giudicare. Tutti i giorni questi ragazzi sono sottoposti a stimolazioni di violenza arcaica, quasi non agissero seguendo la loro volontà.

 

 

apacheIl film batte molto sull’“invisibilità” dei personaggi…

Thierry de Peretti: Assolutamente sì. Tanto è vero che è dedicato a due persone scomparse.

 

 

Perché il titolo Apache?

Thierry de Peretti: Era l’appellativo usato dal capo della polizia per indicare i giovani fuorilegge a Belleville, a Parigi. Inoltre è un titolo che vuole evocare i western, le riserve indiane, perché queste comunità ricordano tante piccole riserve separate fra loro.

 

 

Due domande per la distributrice. Ha scelto lingua originale e sottotitoli perché è la linea che seguite più spesso? E la coraggiosa uscita prevista per il 14 agosto è stata stabilita perché coincide con quella francese?

Emanuela Piovano: Sul doppiaggio scegliamo di volta in volta. In questo caso, il còrso era molto musicale e volevamo conservarlo, anche perché non era presente alcuna chiave interpretativa nei dialoghi. L’uscita del film il 14 agosto, invece, è stata un atto dovuto. Ma noi non siamo competitivi nel fare cinema, e tutti i film che abbiamo scelto è come se li avessimo adottati. Così adesso siamo diventati gli interlocutori privilegiati per un certo tipo di cinema

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